Everything Everywhere All at Once
Un film che parla di tasse e multiversi, con würstel al posto delle dita, trofei a forma di buttplug e un bagel che racchiude i segreti del cosmo. Se di fronte a questa premessa siete ancora qui allora Everything Everywhere All at Once, il lungometraggio - distribuito dalla A24 (garanzia di qualità, come non ci stanchiamo mai di dire) - di Dan Kwan e Daniel Scheinert, meglio conosciuti come i Daniels, fa per voi. Ed è ancora in sala. Ci vediamo dall’altra parte.
Cos’è
Evelyn Quan Wang (la strabiliante Michelle Yeoh, memorabile guerriera di La tigre e il dragone di Ang Lee) gestisce una lavanderia a gettoni insieme al marito Waymond (Ke Huy Quan, attore cult di Indiana Jones e il tempio maledetto e dei Goonies) in California dove si sono trasferiti dalla Cina per inseguire il classico sogno americano. L’attività di Evelyn però è in crisi così come il suo matrimonio, e come se non bastasse l’anziano e prepotente padre Gong Gong (James Hong), appena arrivato da Hong Kong, non le lascia tregua, giudicando tutte le sue scelte di vita. Le cose non vanno meglio con la figlia adolescente Joy (Stephanie Hsu, perfetta) di cui tollera a malincuore l’omosessualità. Per finire, ha alle calcagna una severa ispettrice del fisco, Deirdre Beaubeirdra (il ruolo che Jamie Lee Curtis è nata per interpretare).
Evelyn continua a essere contattata da forze provenienti da un mondo parallelo per una missione in stile Matrix contro Jobu Tupaki, la cattiva che minaccia di fare a pezzi la realtà: toccherà a lei salvare l’intero multiverso dall’annientamento.
Com’è
Everything Everywhere All at Once è una sinfonia di caos, un’iniezione di adrenalina. I Daniels si dilettano a spedire la loro protagonista in una serie di universi sempre più assurdi dove sperimenta vite alternative: da esperta di arti marziali, a cantante d’opera, a cuoca, a pignatta (avete capito bene). Evelyn, che è la somma di tutto il suo potenziale non realizzato e delle opportunità mancate, si ritrova in una caleidoscopica battaglia di fantasia attraverso lo spazio e il tempo, piena zeppa di riferimenti cinematografici, dal già citato Matrix, alle atmosfere di Wong Kar-wai, ai wuxiapian, al Ratatouille della Pixar.
Il film dei Daniels è un action movie sci-fi comedy-drama massimalista, barocco, slabbrato, che accumula follie e soluzioni creative (con tutti i relativi pay-off), trovate esilaranti, sciocche anche al limite del demenziale. Ma accanto all’espediente del multiverso, che può sembrare uno stratagemma per capitalizzare un “trending topic” del momento, c’è una storia che parla di famiglia, del peso delle aspettative tra le generazioni, di incomunicabilità e di delusioni. Il principio di Everything Everywhere All at Once è che una volta che si inizia a pensare alle strade non percorse, perseguitati dalle infinite possibilità di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato, non c’è altra opzione che rendersi conto di quanto tutto sia inutile, e che per sopravvivere in un’epoca sovraccarica come la nostra l’empatia è strategica e necessaria. In sostanza i due registi danno un contesto emotivo, inconfondibilmente umano, alle assurdità che mettono in scena.
Certo il film deve tirarvi dentro, altrimenti potrebbe risultare una sbruffonata autocelebrativa e autocompiaciuta, con una buona idea di base stiracchiata per 2 ore e 20 minuti.
Insomma il rischio è: ok, però anche meno.