Le parole sporche di Bolzano
Per saper amare, a volte, bisogna avere il coraggio di distruggere. Le convenzioni, le buone maniere, le cattive abitudini, i falsi miti, i non detti. A farlo al posto nostro, in questo caso, è un libro che arriva come un pugno allo stomaco, che una volta concluso non scioglie il groviglio di sentimenti di cui sono fatti i nostri corpi, ma ce li fa sentire tutti. Con una storia potente e vera, una scrittura onesta e coinvolgente, arriva il debutto editoriale di Maddalena Fingerle, il romanzo “Lingua Madre” (ed. Italo Svevo) vincitore lo scorso anno del prestigioso Premio Calvino. Dopo l'uscita nelle librerie (domani, 18 marzo) il libro sarà presentato a Bolzano il 25 marzo in un evento online organizzato dalla Ubik.
Tra montagne opprimenti
Protagonista e io narrante è Paolo Prescher (anagramma di “parole sporche”), la cui parabola di formazione si compie in tre atti perfettamente simmetrici: Bolzano, Berlino, Bolzano. Paolo è un ragazzo bolzanino di madrelingua italiana – definizione che il protagonista e voce narrante definirebbe “falsa”, come le donne della sua famiglia borghese. La madre Giuliana è “cattiva”, “stronza”, cretina”, e oltre a sporcarsi le mani mentre si diletta a dipingere, gli sporca le parole. La sorella Luisa piace a tutti ma “è sempre stata sporca, è sempre stata falsa”. Al padre Biagio, invece, Paolo è molto legato: solo lui è “pulito”, però non parla perché affetto da afasia o forse mutismo. Il protagonista vede dunque parole “pulite” e parole “sporche”, le odia e assapora, ne è ossessionato e insofferente. Ha una voce nella testa, osservatrice e ripetitiva, troppo sensibile, perennemente ferita.
Le piante di casa nostra sono inutili perché non sanno sorridere
Anche quando esce di casa, incontra l'ipocrisia di una città che si dice di continuo “bilingue, trilingue, quadrilingue”, senza calore umano, stupida, diversamente ossessionata dalle definizioni. Paolo non sopporta gli si dica che “qui è tutto bilingue”, “perché a Bolzano quasi nessuno è bilingue”, “a Bolzano anche gli italiani parlano male”. Non sopporta l'uso degli articoli per i nomi, alla il Mario e la Paola, non sopporta i béne e fóto pronunciati con le lettere chiuse, non sopporta le gite sul Renon “vestiti a cipolla”. Sente il bisogno di una “lingua della famiglia”, come il dialetto sudtirolese del suo compagno di scuola e unico amico Jan Einstatt, un bilingue che tanto bilingue non è. “Mi dispiace che non abbiamo un dialetto, noi italiani di Bolzano” sostiene Paolo, mentre la madre (nonostante il suo apparente progressismo interetnico) angoscia il figlio con la compilazione della dichiarazione di appartenenza linguistica altrimenti “resterai disoccupato”.
Berlino e ritorno
“Questa città non la reggo più”. Un trauma porta alla rottura: dopo la maturità classica Paolo ripudia la sua lingua madre e si rifugia nel tedesco – a Berlino. Claudio Magris scrisse di pensare in tedesco, ma vivere, guardare, sentire, desidere e raccontare in italiano: a Paolo accade lo stesso, a lingue invertite. Giunge a una sorta di liberazione, può finalmente “parlare una lingua pulita”, non sentirsi estraneo per la sua “stranezza”. Qui lavora in biblioteca senza doversi dichiarare, trova nuovi amici e incontra Mira di Pienaglossa, l'amore che non giudica ma accoglie e ascolta. Lei, italiana di Milano, gli pulisce le parole e Paolo intravede la possibilità di un ritorno, di una riconciliazione, anche se ha “paura di tornare a Bolzano”. Poi si convincerà che “sarà bello stare a Bolzano con Mira”.
Forse era quella la mia Heimat, non sentirmi solo
È davvero possibile pulire le parole, oppure resteranno per sempre sporche? L'autrice, ossessionata dal linguaggio quasi quanto il suo personaggio, gioca con le parole sporche e le declama sino alla nausea, ottenendo un crescendo finale da mozzare il fiato. Un monito, quasi un imperativo ad agire e non illuderci che sia possibile raddrizzare un legno storto. Per imparare ad amare Bolzano, per averla a cuore, bisogna prima provare a odiarla, vederla sporca, marcia e non perfetta come sono all'apparenza le famiglie a passeggio sui prati del Talvera. Solo allontanandosi, distaccandosene forse completamente, sarà pensabile una riconciliazione. Ma tale prospettiva potrà fallire: non c'è sempre una speranza, perché nella vita non ogni cosa trova una sua pacifica soluzione.
“Perché tutte le cose belle spariscono a Bolzano?”. Maddalena Fingerle ha il merito di aver incanalato in un libro la rabbia generata dall'ipocrisia della città – in primis quella sui bilingui “tutti bilingui”, ma anche quell'essersi riconciliata col passato fascista a colpi di contestualizzazioni monumentali non sempre sincere. Serviva coraggio e anche un po' di incoscienza per parlare di una città “falsa”, “opprimente” e “sporca”, tematizzando per la prima volta anche la questione di classe, convitato di pietra in una realtà benestante che si nutre di apparenze “borghesi”. Ci voleva qualcuna in grado di farlo, dunque, ma con un linguaggio innovativo e coerente, senza rancore. Perciò è un libro necessario, che mancava: alle figlie e ai figli del capoluogo del Sudtirolo, come l'autrice – e a chiunque nel mondo soffra il rapporto d'amore-odio con la lingua madre che è, usando un anagramma caro a Paolo Prescher, anche “merda”.
Non lo so. Sarà il mio stato
Non lo so. Sarà il mio stato emotivo attuale, ma questa recensione mi ha commosso. E poi sia Berlino che Bolzano Bozen avevano entrambe un muro. E spero che questo sia caduto per entrambe...
“perché a Bolzano quasi
“perché a Bolzano quasi nessuno è bilingue”, “a Bolzano anche gli italiani parlano male”: Wahrer Satz und sehr gute Autorin. Das gilt übrigens auch für Meran.
Ich denke aber, dass es besser ist zwei Sprachen schlecht zu sprechen anstatt nur eine gut.