Nauz, fiore della normalità radicale
Nauz è un libro di poesie (e immagini) della poetessa ladina Roberta Dapunt, e adesso anche un film, per la regia di Jochen Unterhofer e Florian Geiser, mostrato in anteprima al Museion, nella cornice della rassegna Film Festival.
Nauz, deriva certo da Schnauze (in tedesco: muso allungato di un animale), alla lettera significa “trogolo”, il recipiente in cui si nutrono i maiali. Il testo che gli corrisponde è scarno: “Liscia il trogolo il maiale, lui che diventa buono / appagato è l’animale, impolpa la sugna e fiorisce. / E oggi al mattino una voce a chiamarti, tu curioso / a seguire il tuo macellaio” (Canto al mattino). Sono immagini crude ma lontane, lontanissime da qualsiasi risvolto sentimentale, private perciò di sadismo o di pietà, asciugate da ogni intento morale (o moralistico).
Il film è un impasto compiuto di immagini e suoni. La voce della Dapunt punteggia sequenze quasi statiche, veri e propri Bilder einer Ausstellung. La musica di Eduard Demetz avvolge ciò che si vede e si sente come in un sudario. Il crinale che separa un facile simbolismo della morte (la morte contadina) dalla mera esposizione dei fatti è sottile, qualche volta si ha l’impressione di scivolare in tanta solennità ricavata da gesti atavici e quotidiani, ma poi prevale un senso di calma severità, di “normalità radicale”, come l’ha chiamata la stessa Dapunt parlando della sua ricerca impostata sul concetto di “dignità”.
A fare da sfondo alla macellazione il profilo dei monti intorno a Ciaminades e le sculture di Lois Anvidalfarei: oggetti inanimati ma anch’essi carichi di una tensione che riverbera dagli scatti del maiale a terra, in attesa che la sua fine si compia, mentre il sangue tinge la neve di rosso. È proprio lo scultore, nella vita compagno della poetessa, a illustrare la semplicità di queste “ultime cose”: “Avviene tutto in un giorno, alle soglie del Natale. Di mattina si uccide il maiale, la sera si mangia. In mezzo il lavoro più duro, per toglierli le setole e ricavarne le parti da utilizzare”. Ho pensato a un grande quadro di Segantini, la luce dell’alba che poi trascolora sul paesaggio fino al tramonto, tesa ad arco, in un movimento crescente e poi declinante.
Fuori dalla sala, incontro Marcello Fera. “Secondo me – mi dice il musicista – l’arte è soprattutto questo: un oggetto che è allo stesso tempo vivo e inerte”. Lo ascolto e penso: un oggetto che nasce dal dolore e che si deve lavorare per averlo pulito. “Consento il tuo entrare nell’alba, nel sole che sorge, a morire. / E tu guardi sereno per terra, non è tempo di fioritura”. Ma è l’arte, questo fiorire. Come in Nauz, con i suoi petali di sangue.