Sonora 700. In dialogo con Marcello Fera
Chi si aspettava concerti tradizionali sarà rimasto sorpreso perché ognuno dei sette organizzati dall’associazione Conductus per Sonora 700 in occasione dell’anno di giubileo meranese per festeggiare i 700 anni dalla proclamazione del suo ordinamento civico per mano di re Enrico nel lontano 1317 era (e sarà ancora) un’esplosione delle più svariate forme sonanti.
Sonora è una iniziativa nata quindici anni fa per volere dell’associazione Conductus per portare alla conoscenza del pubblico musiche di vario genere – sempre di alta qualità - sotto la direzione di Marcello Fera, musicista a tutto tondo (nel senso che suona il violino, compone e dirige l’Ensemble Conductus). Sinora abbiamo assistito all’Ars Nova (così si chiamava il concerto di apertura del 31 maggio) in cui il tema dominante era “che cosa significa il nuovo in musica?” e al centro della serata c’erano grandi innovatori della storia della musica, innanzitutto Claudio Monteverdi ma anche Luigi Tenco (della cui Lontano abbiamo sentito una interpretazione da brivido da parte di Gaia Mattiuzzi, soprano specializzata nelle sonorità jazz e blues ma che anche nella classica sa veicolare uno spettro davvero ampio di emozioni che vanno dritte al cuore).
Un vero e proprio “tocco magico” c’è stato il 6 giugno nella sala barocca del Palais Mamming, la serata dedicata a Contadini e streghe, o meglio al periodo del Cinquecento il quale in questa nostra terra era segnato dalle prime persecuzioni di eretici e di donne sapienti che erano da subito etichettate come “streghe”. E da una simile “strega”, la soprano tedesca Cordula Stepp, ha dato il meglio di sé nell’interpretazione di sola voce delle “chiacchiere” (in originale il titolo è la definizione tedesca per questo genere del parlarsi, ossia Geschwätz, composto dal greco Dimitri Terzakis, classe 1938). Non da meno era il “corpo a corpo” col tamburo e le sue percussioni da parte di Philipp Lamprecht (che ha anche curato l’intero programma) per eseguire il brano omonimo Le corps à corps di Georges Aperghis (classe 1945) scatenando un’atmosfera mozzafiato in sala che si era liberata in un lungo scrosciante applauso, dopo.
Per non dimenticare la musicazione dello stesso Fera di un poema scritto da Peter Oberdörfer (recentemente scomparso e al quale era dedicato l’intero concerto), La Ballade von Anna Jobstin, che a mo’ di rap e sonorità melodicamente ritmate narra di una vicenda veramente accaduta. Insomma, si udivano musiche dedicate a coloro che sapevano (e sanno) di non possedere molto di più del proprio corpo emanando quella forza d’animo che a volte può persino incutere timore. Forse era proprio quella – la forza d’animo – a scatenare le violente reazioni da parte dei potenti scossi nelle loro tranquille esistenze e sentendole minate? Cassa di risonanza che si amplia dalle corde vocali per mezzo delle vibrazioni scatenate nell’aria per andare a colpire anima e corpo di chi ascolta, atmosfere da brivido simili si erano create anche nella sala dell’ex Cafè de Paris (voci ci hanno riferito che quel luogo d’incontro per la cultura fu chiuso nel 1918, epoca di passaggio importante nella storia della città, per poi essere riaperto nei primi anni settanta come centro per le arti marziali, in fondo è rimasto, infatti un luogo d’incontro di culture, altre, nel senso che di sport si tratta che ci giunge da oriente): Marcello Fera si era lanciato in un’avventura del tutto inaspettata, la trascrizione per ensemble d’archi e voce di brani della cosiddetta morna capoverdiana (dicasi la musica tradizionale dell’isola africana sita davanti al Senegal che si rifa un po’ al fado portoghese e un po’ al choro brasiliano), dove la voce esecutiva è stata una delle maggiori interpreti, Nancy Vieria (giunta a Merano grazie alla collaborazione con Alberto Zepieri). Fluide sonorità prodotte da archi invece di quelle battenti da chitarre o accordion, ma che non da meno assieme alle calorose parole cantate da Vieria hanno suscitato grande entusiasmo nel pubblico. Tanto da dire: quand’è che si replica?
Abbiamo incontrato Marcello Fera, al termine del quarto concerto, per parlare di ciò che ancora ci attende, domani sabato 17 giugno (Dream & Nation) al Teatro Puccini e il prossimo mercoledì 21 giugno all’insegna della Metamorphosis nella splendida sede della Chiesa delle Dami Inglesi (Piazza della Rena, Merano).
salto.bz: Parliamo del concerto che si chiamava “Europa 1767”…
Marcello Fera: Il titolo si riferisce al passaggio tra l’epoca illuminista e quella delle rivoluzioni che sul piano musicale è il passaggio dal rococò all’epoca classica. Vanni Moretto - che ha anche diretto l’ensemble quella sera - ha progettato un programma incentrato su quell’anno in particolare essendo stato l’anno della morte di Georg Philipp Telemann: ha selezionato una serie di composizioni che furono scritte in quell’anno onde illustrare la convivenza di stili differenti in un’epoca appunto di passaggio. Telemann nel suo ultimo anno di vita scrisse Loure (di cui abbiamo sentito l’Ouverture in Re maggiore, ndr) seguendo un’estetica barocca, mentre Haydn e Boccherini erano già proiettati verso il romanticismo (di questi due il pubblico ha potuto ammirare rispettivamente il Minuetto dal Quartetto in fa minore Op. 20 n. 5 e la Sinfonia in Re Maggiore D 500, ndr). Altri autori sempre dello stesso periodo erano maggiormente interessati nel discorso sulla dialettica tra quello che lo stesso Moretto ha voluto sottolineare parlando di “grandi autori e autori minori” dove si capisce che la distinzione è frutto di una distillazione della storia e non era influenzata dalle categorie. Se invece si vuole compiere un’analisi da quest’ultimo punto di vista ci si perde perché andrebbe tenuto conto anche nella storia della musica dei decentramenti sociali. Infatti, il Settecento è uno dei periodi segnati da una grande trasformazione nella fruizione della musica…
Mi viene in mente che nel corso del concerto Vanni Moretto aveva presentato vari brani parlando di forme sonanti all’insegna di ciò che nella letteratura tedesca è noto come Sturm und Drang, un motto preromantico in cui regnano le emozioni forti in forme espressive atipiche nuove e soprattutto aveva accennato a “una forma periodica delle sinfonie” per cui il pubblico attendeva una nuova sinfonia come al giorno d’oggi si fa per una nuova stagione di una serie televisiva o di un videogioco…
Negli anni sessanta del Settecento si parlava anche di un massiccio ritorno del Minuetto, una specie di danza dei sentimenti?
Era un’epoca in cui alcuni musicisti, non legati a produzioni operistiche – nel senso che nel campo della lirica ciò era già accaduto – ma a quella strumentale, si erano svincolati dalle condizioni di essere servitori di una corte per lavorare in modo indipendente grazie a un pubblico nuovo. Così era nata una nuova gnerazione di musicisti, tra cui l’esempio per eccellenza era Mozart (di lui si era sentito l’Andante della Sinfonia n. 8 K48 che l’enfant prodige aveva composto all’età di dodici anni, ndr).
Domani, sabato, sentiamo un concerto etichettato Dream & Nation. Che cosa ci attende?
Il tema dell’Ottocento è legato a livello della storia, in generale, e della nostra cittadina, in particolare, all’idea di popolo e di identità che emerge nel pensiero di scrittori e poeti romantici. Va sottolineato che questa idea romantica di identità è stata in seguito molto distorta fino a essere pervertita più volte fino a oggi e i cui risvolti tragici sono legati al formarsi dei vari nazionalismi di fine Ottocento e inizio Novecento.
Per non parlare di oggi… In che modo saranno suonati i sogni di nazioni?
Ho chiesto a Filippo Faes di portarci il programma da lui elaborato per altra occasione e che prevede il Trio con pianoforte Dumky composto da Antonin Dvorak, il Duo per violino e violoncello di Zoltan Kodaly e il Trio di Ravel, tre opere tipiche da grande repertorio classico ma i cui autori sono legati alla riflessione sulle radici e le fonti della musica popolare.
Idea identitaria nella musica come espressione di uno dei temi maggiori presenti in una città del Sudtirolo?
Assolutamente no, piuttosto della sua origine, ossia come scoperta della musica popolare nella sua veste di essere voce anonima che rappresenta l’univocità di un popolo. È attraverso la sua produzione artistica, del popolo, senza una precisa individuazione autoriale che esso è in grado di esprimere la propria poetica dando luogo quindi all’idea “buona” di popolare che va ben oltre. In questo modo essa rappresenta un’anima collettiva che si esprime nell’insieme e che si trova molto nella tradizione culturale. Ecco perché l’idea identitaria nel senso positivo non va assolutamente intesa né letta come uno strumento nazionalista, come invece è stato fatto molto spesso usandola e deformandola per vari scopi, altri da sé. Colgo l’occasione per sottolineare un luogo comune che vuole che la musica oltrepassi le barriere nazionaliste, ciò è vero in parte nel senso che è sempre la gestione a essere legata a dinamiche sociali, e questo avviene ovunque. Però, avendo occhi e orecchie ben aperti riguardo alla massificazione del mercato mercato, ciò ci pone davanti a una copresenza di tanti generi per cui oggi come oggi si può ascoltare di tutto e di più. Ciò determina una dimensione individuale nella ricezione che si fa alquanto parziale nel momento in cui la musica popolare viene usata (forse è appropriato dire “stravolta”?, ndr) come strumento di potere di un qualsiasi ambito politico-sociale.
L’ultimo concerto corre sotto il titolo – come poteva non esserlo? – di Metamorphosis, ossia metamorfosi attuale…
È stato difficile pensare a un percorso dal Novecento fino a oggi, essendo ricca la scelta e nei riguardi alle disponibilità di un piccolo ensemble d'archi. Dunque, abbiamo scelto un’idea di polarità che vede da una parte l’impressionante arco aperto della musica nel Novecento in cui dominano l’industria pesante, quella dell’acciaio per intenderci, e i movimenti di massa e, dall’altra, c’è la nostra realtà contemporanea dominata dall’evanescenza e la leggerezza dell’informatica dove però si evidenzia una costante di grandi numeri per cui il singolo fa fatica a prendere le misure con la società in cui si ritrova a vivere. Di qui la metamorfosi, ossia la decostruzione di ciò che può essere letto, prendendo come esempio la Grande guerra… L’epoca delle tonnellate d’acciaio, l’epoca dell’industria pesante, rimane una lettura intrigante e può essere un utile strumento per leggere anche la crisi del mondo contemporaneo in cui si questa massa si presenta sotto forma di un minuscolo quasi inesistente microchip… Insomma, quello che abbiamo costruito è uno dei mille percorsi che si potevano pensare dall’inizio del Novecento ai primi del Duemila.
Un’ultima curiosità: qual è la tua formazione?
Per dirla con un termine la definirei “variegata”, ma per essere più specifico mi sono diplomato in violino, successivamente ho studiato composizione e direzione d’orchestra, sia in sedi private che presso il Mozarteum a Salsiburgo. Sono tutte materie paritetiche per esercitare quella professione comunemente chiamata “musicista”, ossia svolgere le varie attività in campo musicale secondo un modus agendi che era molto diffuso fino a metà Ottocento. Poi si era andato sempre più specializzandosi per divenire numerosi profili professionali precisi, mentre da un po’ di anni sta nuovamente diventando più comune.