Gesellschaft | Dal Festival

Un racconto da brividi

Una ragazza del liceo Dante Alighieri di Bressanone è stata premiata al Festival studentesco per un bellissimo testo di denuncia contro la violenza sulle donne. Eccolo.
GEA - solidarietà femminile contro la violenza
Foto: Gea

Scrivere di getto un racconto con un tempo limite di sei ore, in pubblico, con musica, ragazzi e ragazze che fanno il tifo, mentre cantanti si esibiscono. E' ciò che è richiesto agli studenti che partecipano al Festival studentesco nella sezione scrittura creativa. Pubblichiamo di seguito un breve diario sulla partecipazione alla manifestazione organizzata dall'Artist Club e il lavoro prodotto da Chiara Gaudino, studentessa 18enne del Liceo Dante Alighieri di Bressanone. Un racconto ci ha molto colpito e che si è classificato al secondo posto nella competizione.

 

Partecipare al Festival Studentesco - scrive Chiara - è stata per me un’esperienza unica. Questo è stato per me il secondo anno come partecipante nella categoria di “Scrittura creativa” del Festival e l’atmosfera era magica come lo scorso anno. Piazza Walther a Bolzano gremita di adolescenti che supportano le proprie scuole e i propri compagni è uno spettacolo non da poco. Certo, scrivere per sei ore con cori, urla e musica nelle orecchie non è il massimo, ma è ad ogni modo una bella esperienza. Sei ore per scrivere un manufatto possono sembrare molte, ma non lo sono affatto: il tema del Festival viene annunciato in piazza Walther alle ore 14:30, perciò ci vuole molto tempo per riflettere su cosa scrivere, non è come scrivere sul proprio divano e quando si ispirazione. Il tema dello scorso anno era “Rumore” e sono riuscita a classificarmi terza. Quello di quest’anno era invece “Il salto nel buio”, un tema a mio parere molto complesso.

Ci ho messo circa due ore per valutare bene quale idea elaborare: certo, avevo più idee, ma volevo qualcosa di originale. Ho pensato dunque a noi donne, a quanto spesso -troppo spesso- avvengono violenze tra le mura di casa, per mano di persone che noi amiamo. Ho provato a immedesimarmi in una di queste donne, senza darle un nome. Non ha nome proprio perché potrebbe essere ognuna di noi, perché quando una donna è vittima di violenza viene ricordata solo come un numero. Con questo testo sono riuscita a vincere il secondo posto, ma se anche così non fosse stato, sarebbe stata comunque per me una vittoria personale: scrivere testi con tematiche così “pesanti” non è mai facile.


 

BUIO AL NUMERO 734


L’amore è uno dei sentimenti più forti che esistono. A braccetto con l’amore cammina l’odio. C’è un filo sottile a separare le due emozioni. A volte si mescolano, i confini non sono più definiti, non sono più nitidi. Diventa una nuvola di passione, ardore. Qualche volta sfocia nella gelosia. Qualche volta quella nuvola diventa pericolosa. E in quei casi, noi donne diventiamo dei numeri che aumentano sempre. Numeri che finiscono sui giornali, in televisione: “Donna uccisa dal compagno”.
Amavo Marco. Lo amavo con ogni cellula del mio corpo. Ci saremmo dovuti sposare ad ottobre, ma la sua nuvola di sentimenti era diventata viola dalla gelosia. Eravamo appena tornati a casa dopo una serata insieme con i suoi amici. Mi ero divertita. Ma lui ha deciso
che il mio divertimento per quella serata era finito. Siamo entrati nel nostro appartamento e lui è andato in bagno. Poi è tornato nel salotto e si è seduto di fianco a me sul divano. Mi ha messo un braccio intorno alle spalle e ho appoggiato la testa sul suo petto. Ho
sentito il calore del suo corpo coperto solo da una maglietta contro la mia guancia. L’ho guardato negli occhi: “Ti amo!”, ho sussurrato. Lui non ha risposto, ma non ci ho dato peso.
“Ti sei divertita questa sera?”, mi ha chiesto dopo qualche minuto nel silenzio. Ricordo di aver sbattuto le palpebre per scacciare via il sonno.
“Sì, molto.”, ho risposto sorridendo. Poi mi sono riappisolata.
“Ho notato…”, ha commentato. “Nessuno ti toglieva gli occhi di dosso.”
“Lo sai che non mi interessano gli occhi di nessun altro. Solo i tuoi.”, l’ho rassicuro accoccolandomi a lui.
“Odio gli occhi degli altri su di te.”, ha sospirato. “E odio gli occhi tuoi sugli altri.”. Quasi non glielo avevo sentito sussurrare. Ho sentito il suo corpo spostarsi da sotto il mio e alzarsi dal divano. Mi ci sono voluti un paio di secondi per metabolizzare le sue parole.
“Cosa intendi?”, gli ho chiesto mettendomi a sedere. Silenzio. Ho richiuso gli occhi per la stanchezza. “Non ho guardato nessuno.”, ho aggiunto per rassicurarlo. Ancora silenzio.
Ho sentito i suoi passi leggeri entrare di nuovo nella stanza. Poi dei singhiozzi. Sta piangendo? mi sono chiesta. Probabilmente è solo la mia immaginazione.
Si è avvicinato a me, sentivo il suo respiro caldo a pochi centimetri dal mio viso. Ho sorriso.
“Mi dispiace.”, ha sussurrato una volta. Poi due, tre. Ho aperto gli occhi.
“Cosa succede?”, gli ho chiesto, prendendogli il viso tra le mani. Era bagnato da lacrime vere, più calde di quelle che mi ero immaginata.
“Voglio essere l’ultima cosa che vedrai nella tua vita.”, ha detto.
Come poteva pensare che non sarebbe stato così? “Marco, sei la prima cosa che vedo al mattino e l’ultima quando vado a dormire. Ti amo e questo non cambierà mai.”, gli ho sussurrato sulle labbra. Poi l’ho baciato. Era un bacio salato, aveva il sapore delle sue lacrime.
Ho aperto gli occhi per guardarlo. Ho visto il suo viso, bello come un angelo. I suoi ricci neri sulla fronte. I suoi occhi azzurri umidi dalle lacrime che aveva appena versato. Le labbra rosse incurvate in un sorriso triste o forse compiaciuto. Non sono riuscita a capirlo in tempo.
Ho visto tutto a rallentatore: la sua mano che impugna un flacone di candeggina. Con un movimento lento e insicuro avvicina il flacone al mio viso. L’ultima cosa che ho visto sono state le sue mani, che fino a poco prima mi avevano saputa amare, prendere, proteggere. Le stesse mani che in quel momento avevano deciso di distruggermi la vita.
Ho percepito il liquido freddo sul mio viso, poi una goccia negli occhi: ho urlato. Ho urlato fino a quando i polmoni non hanno iniziato a bruciarmi. Volevo piangere, ma probabilmente non sarebbero più uscite lacrime.
Sono svenuta.
Mi sono svegliata sentendomi messa peggio di un rottame. La superficie sotto di me era morbida, come fossi su un letto. Ho sentito voci soffuse che dicevano parole senza senso, sembrava che parlassero una lingua diversa dalla mia.
Ho aperto gli occhi, ma ho visto buio.
“Qualcuno potrebbe accendere la luce?”, ho chiesto con una voce troppo rauca, quasi stentavo a riconoscerla.
Le voci nella stanza si sono ammutolite. Ho sentito il rumore di passi che si avvicinavano a me. “Come ti senti, tesoro?”, mi ha chiesto una voce. Ci ho impiegato qualche attimo ad assegnarla a qualcuno.
“Mamma, accendi la luce? Non vedo nulla.”, le ho chiesto. L’ho sentita piangere silenziosamente.
“La luce è accesa.”, mi ha risposto lei con voce rotta.
E allora ho ricordato tutto. Ho sentito il mondo spezzarsi attorno a me. Ho rivissuto quel momento, quell’attimo in cui la mia vita ha fatto un salto nel buio senza guardarsi indietro, senza lanciare uno sguardo ai colori della vita che erano sbiaditi, senza sbirciare per l’ultima volta da quella finestra dipinta di primavera, di foglie verdi e fiori e ruscelli. Intorno a me c’erano miliardi di voci. Rimbombavano nella mia testa. Oltre quella di mia madre, non ne ho riconosciuta nessun’altra. Ho solo potuto immaginare i loro visi, i loro corpi, le loro espressioni mentre
dicevano che non avrei mai recuperato la vista.
Ciao, sono la vittima di violenza numero 734 di quest’anno. Sono diventata un numero anche io. Non so più come sono fatta, non so più chi sono. Non ho perso solo la vista, ma anche l’identità. Non sono più una persona. Sono un numero. Un numero nel buio.