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La mafia a casa nostra

Dalle elezioni alle violenze, dalle cene agli arresti. L’operazione Perfido e la ‘Ndrangheta che bussa alle nostre porte, frantumando il mito del Trentino "Isola Felice”.
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Foto: Questotrentino

Fin dai primi anni ottanta la 'Ndrangheta è riuscita a radicarsi profondamente sul territorio trentino, iniziando dapprima dalle attività di estrazione del porfido dalle cave della Val di Cembra, per espandersi poi a diversi altri settori, come quello edile. 
Con l'operazione Perfido, lo scorso 15 ottobre 2020 sono state eseguite 19 misure cautelari con accuse che vanno da associazione mafiosa a riduzione in schiavitù. Per l’accusa si tratta di provare l’esistenza di una locale della 'Ndrangheta all’interno del comune di Lona-Lases, in diretto collegamento con Cardeto, in provincia di Reggio Calabria.
Secondo le intercettazioni e le inchieste portate avanti negli ultimi anni, si sarebbe costituito un sistema economico criminale, basato sullo sfruttamento e la violenza nei confronti dei lavoratori, unito all’annichilimento della concorrenza e alle strette e preoccupanti connessioni con le istituzioni locali.
Ettore Paris, fondatore e direttore del mensile di approfondimento Questotrentino, nonché autore di una delle più importanti inchieste degli ultimi anni, smonterà pezzetto per pezzetto il mito del “Trentino isola felice”.


salto.bz: Direttore, l’anno scorso con l’operazione Perfido il Trentino si è svegliato improvvisamente con la mafia in casa. Eppure qualche segnale d'allarme lo si era già percepito.

Ettore Paris: Prima dell’ondata di arresti derivanti dall’operazione in questione c’era già la Commissione antimafia che ci aveva avvertito del fatto che il Trentino fosse terra di criminalità organizzata, individuando già allora l’area del porfido come quella più critica. Tuttavia, non avendo nominato alcun episodio in particolare, ai tempi non riscosse grandi impressioni, forse qualche titolo di giornale. Quello che abbiamo fatto noi è stato ricostruire gli ultimi decenni di storia di quella zona che poteva essere tranquillamente equiparata a un qualsiasi paesino della frontiera americana in cui si scatenava la corsa all’oro, una corsa che anche in questo caso avveniva senza regole e quindi premiava il più forte, il più furbo e il più “ammanicato”. In Val di Cembra la criminalità organizzata ha assunto una posizione di preminenza che le ha consentito di distruggere il paesaggio pagando canoni del tutto irrisori per la concessione delle cave rispetto al resto d’Europa.

Come è stato possibile che la ‘Ndrangheta compenetrasse negli anni all’interno della società trentina a partire da un piccolo comune di poche centinaia di abitanti?

C’è stata una sorta di lungimiranza da parte dei porfidari nel voler far ricadere un po’ della ricchezza derivante dal cosiddetto oro rosso sui compaesani. Chi lavorava il porfido inizialmente poteva godere di una buona paga, seppur nemmeno lontanamente equiparabile all’indotto dei padroni, e questo ha consentito loro di riscuotere consenso fino ad essere egemoni nelle elezioni locali, così da ottenere appoggi anche in Provincia e in Regione e cominciando ad essere visti dai partiti come i referenti in valle con i quali interfacciarsi durante la ricerca del consenso elettorale. 

E successivamente?

Con l’arrivo della manodopera immigrata - perlopiù senegalese, albanese, macedone e cinese - a partire dagli anni ‘90 l’operaio non è più l’ex compagno di scuola che vota alle elezioni bensì qualcuno considerato da sfruttare. Si comincia a pagare sempre di meno e in certi casi a non pagare affatto. Il capo economico della cellula ‘ndranghetista locale, Giuseppe Battaglia, forniva ai lavoratori giusto il minimo per sopravvivere. Siamo riusciti ad accedere ad alcune recenti intercettazioni in cui, prima gli operai e poi addirittura le mogli, imploravano di essere pagati, mentre lo stesso Battaglia continuava a rimandare per mesi. Qualcuno insistette un po’ troppo e per questo pagò un prezzo molto alto.

Cosa avvenne?

Hu Xupai, un operaio cinese, lamentava un ammanco di 12.000 euro, e non accontentandosi delle vaghe promesse dei datori di lavoro, soprattutto vedendo l’ostentazione di auto costose e ricchezze varie cominciò a richiederli con sempre maggiore insistenza. Una notte d’inverno lo attirarono così all’interno della cava con la promessa di consegnargli il denaro mancante ma lo sorpresero invece con un brutale pestaggio a tal punto da ridurlo in fin di vita. Grazie alle testimonianze e alle intercettazioni in nostro possesso siamo riusciti a ricostruire quello che è stato un autentico massacro. Abbiamo descritto il ritrovamento e abbiamo avanzato i nostri interrogativi sull’operato dei carabinieri e dei mezzi di soccorso. Le Forze dell’ordine erano state chiamate proprio dai picchiatori i quali sostenevano che Xupai stesse commettendo un furto nella cava. Nonostante lo stato di semi incoscienza i Carabinieri anziché chiamare il 118 lo hanno portato in caserma, commettendo una violazione gravissima che poteva costargli la vita. L’operatore che lo ha refertato, al telefono parlava di politraumi, denti rotti e gambe spezzate. 
L’accusa di furto successivamente cadde ma non verrà mai risarcito. In tribunale del lavoro, con sentenza passata in giudicato, accerterà inoltre che i soldi arretrati superano i 34.000 euro. I picchiatori hanno continuato a lavorare impunemente fino a che con l’operazione “Perfido” non sono stati imputati per associazione mafiosa e arrestati.


Perchè Hu Xupai non venne risarcito?

I datori di lavoro erano i cosiddetti intermediari, che sono il modo con cui i concessionari “appaltano” il lavoro sporco. Spesso sono persino ex operai che creano formalmente aziende artigiane autonome addette all’estrazione del porfido che solo i concessionari potevano però commerciare. Era un modo per ottimizzare al meglio la catena di sfruttamento. I proprietari di questo mondo di mezzo hanno infatti fatto fallire appositamente la società in cui l’operaio cinese era assunto e per questo non ha mai visto e non vedrà mai alcun risarcimento. La redazione di Questotrentino ha organizzato una raccolta fondi, almeno per aiutarlo a sostenere alcune spese mediche e legali.

Grazie a una serie di intercettazioni sono emersi gli stretti contatti tra “i signori del porfido” di Lona Lases e la pericolosa cosca dei Serraino, assieme a delle modalità di fare impresa davvero sconcertanti basate non solo sullo sfruttamento dei lavoratori ma anche gravi intimidazioni nei confronti dei concorrenti

Cosa svelò l’operazione “Perfido”?

Grazie a una serie di intercettazioni sono emersi gli stretti contatti tra “i signori del porfido” di Lona Lases e la pericolosa cosca dei Serraino, assieme a delle modalità di fare impresa davvero sconcertanti basate non solo sullo sfruttamento dei lavoratori ma anche gravi intimidazioni nei confronti dei concorrenti. La cellula ‘Ndranghetista locale minacciava e progettava azioni ritorsive nei confronti di aziende locali, spesso truffate e che si rivolgevano pertanto alla magistratura. Mi meraviglia, che Confindustria abbia deciso di non costituirsi parte civile all’interno del processo. Non è un buon segno che gli industriali abbiano deciso di restarne fuori. C’è anche da dire che alcuni degli accusati fossero iscritti dal canto suo a Confindustria, auspico non ci siano vicinanze e connivenze con altri gruppi imprenditoriali locali.

Le ditte degli arrestati sono ancora attive?

La Anesi di Giuseppe Battaglia a Lases e la Cava Porfido ad Albiano (formalmente di Bruno Saltori ma in realtà gestita da Giuseppe Battaglia, la moglie Giovanna e il fratello Pietro, oltre a Mario Nania) si sono viste revocare la concessione. Tuttavia le ditte di lavorazione o che si occupano di edilizia e posa del porfido proseguono invece con la loro attività sotto la gestione dei figli, così come la ditta di lavorazione dell’imputato Innocenzio Macheda. 
 

Accanto al potere economico era necessario un aggancio politico. Come venne ottenuto?

L’anello di congiunzione fu proprio Giuseppe Battaglia, già assessore alle cave del comune di Lona Lases. Ci fu poi un ulteriore passo in avanti, la cui consistenza sarà materia di Tribunale. L’accusa parla di diverse cene, alcune organizzate da Giulio Carini, un imprenditore della zona del Garda apparentemente al di sopra di ogni sospetto che però ogni mese si recava in Calabria a conferire con potenti boss mafiosi. Altre organizzate dall’associazione culturale Magna Grecia, alle quali venivano invitati per esempio il primario del Santa Chiara dott. Giuseppe Tirone o il generale Dario Buffa, a capo del Comando Militare Esercito “Trentino-Alto Adige. Ad una riunione doveva persino partecipare l’allora Commissario del Governo di Trento - poi trasferito - che venne però dissuaso da un ufficiale della Guardia di Finanza che lo avvisò della presenza di Antonino Paviglianiti, ‘ndranghetista condannato con sentenza definitiva, che prima di consegnarsi stava girando le diverse zone in Italia in cui le locali, Trento compresa, organizzano feste per salutarlo assieme a una raccolta fondi da devolvere ai familiari mentre sarà in carcere.

Chi erano invece i commensali di Carini? Quali interessi li univa?

Le cene dell’imprenditore, anch’egli coinvolto nell’operazione “Perfido”, erano particolarmente partecipate. L'interesse principale era quello di agganciare più persone possibili che avessero un ruolo all’interno della provincia. Abbiamo per esempio il presidente del Tribunale, altri due magistrati, un generale (che si darà particolarmente da fare per far ottenere il porto d’armi  a uno degli ‘ndranghetisti locali escluso a causa di una precedente condanna), il primario, un vicequestore assieme all’ex questore del capoluogo. Insomma tutta una serie di persone con ruoli istituzionali di rilievo. Non si sa di preciso che cosa ricavassero da queste frequentazioni, probabilmente l’obiettivo era quello di entrare in un giro di amicizie che potessero favorire la carriera. Particolarmente significativo era che in quelle occasioni si cucinasse la capra calabrese, nientemeno che un rituale ‘ndranghetista. Dalle intercettazioni rispetto a queste cene non emersero elementi particolarmente compromettenti rispetto agli ospiti. Emerse invece una conversazione di Carini, sapendo dell'imminente arresto, intento ad avanzare richieste ai giudici rispetto al farsi assegnare una cella singola, così come la moglie di un giudice, offesa per non essere stata invitata a una cena scrisse un messaggio allo stesso Carini ricordandogli di stare attento perché solo suo marito lo potrà salvare.

L’operazione “Perfido” venne descritta come un grande bluff. Perchè?

Dicevano che non c’erano le prove, che l’accusa era mal formulata e si susseguivano le richieste di scarcerazione. Invece l’accusa ha superato tutto l’iter necessario per arrivare al processo che dovrà iniziare il prossimo gennaio. Sarà molto difficile alla luce dei fatti escludere l’esistenza di tale associazione mafiosa.