Kultur | SALTO AFTERNOON

La delirante ricerca della sicurezza

Splendido adattamento teatrale del racconto di Kafka “La tana” da parte di F. Sarrubbo, C. Mair e T. Popoli, che hanno utilizzato come scenografia il Bunker di via Fago.
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Foto: Foto gadilu

Corro in tutte le direzioni... come un animale in preda alla disperazione dentro la sua tana”. Queste parole, scritte da Franz Kafka in una lettera del 1922, non sono soltanto la preveggente sintesi della trama – a volerla chiamare così – di uno dei suoi ultimi racconti (Der Bau), ma rappresentano anche la sua intera cifra esistenziale, vale a dire una vita fatta essenzialmente di scrittura (“Io non sono nulla, altro che letteratura, non posso e non voglio essere qualcosa d'altro”).

Nei cunicoli di un'anima sofferente

Immaginiamo questa scrittura come una fortezza, un labirinto, oppure – per l'appunto – una tana, nella quale l'autore scivola sempre più in profondità mentre sbava tracce d'inchiostro nei cunicoli della propria anima sofferente, così come Gregor Samsa, il protagonista della Verwandlung, lasciava tracce organiche sulle pareti della sua stanza. Chi è in grado di decifrare queste tracce ha la possibilità di accedere a un paesaggio mentale popolato da esseri che sono sempre spezzati in due metà incongrue (si veda il bellissimo racconto “Un incrocio”, in cui si parla di un animale sospeso tra l'essere un gatto e un agnello). Destini irrisolti, incapaci di pervenire ad un qualsiasi stato di completezza (l'agrimensore K. che – nel Castello – non riuscirà neppure ad entrare in contatto con chi l'ha chiamato lì a lavorare, il cacciatore Gracco, deceduto e condannato ad aggirarsi con una barca senza timone “nelle regioni più basse della morte”).

Nel Bunker

Come noto, Kafka era molto scettico davanti alle trasposizioni in immagini delle sue opere, scongiurando che non si adottasse un effetto troppo “realistico”. L'operazione, infatti, dovrebbe rendere in modo non imitativo qualcosa che sta oltre la differenza tra ideale e reale, psichico e concreto, ma anche tra tragico e comico. Il teatro contemporaneo, da questo punto di vista, sembra invece il mezzo più idoneo, a patto che regia, recitazione e scenografia siano in grado di sintonizzarsi con lo spirito dell'opera. Un contributo decisivo, poi, può darlo l'ambiente in cui allestire la rappresentazione. A questo proposito è stato un dono del cielo (anzi: della terra) quello che si è offerto a Flora Sarrubbo (attrice protagonista e monologante), Christian Mair (regista) e Tiziano Popoli (sound design), i quali sono riusciti a proporre lo spettacolo tratto da “La tana” (Der Bau) in un anfratto del Bunker H di via Fago, a Bolzano. Una costruzione davvero impressionante (circa 7000 metri quadrati di gallerie), realizzata dai militari tedeschi dopo l'otto settembre del 1943 e utilizzata nei quasi due anni successivi; anni in cui Bolzano venne sottoposta a pesantissimi bombardamenti e violente lacerazioni del suo tessuto sociale. Raggruppati alla luce delle torce elettriche, dotati di un casco protettivo e quindi invitati ad aggirarsi nel ventre del Bunker per assistere alla rappresentazione, gli spettatori hanno avuto così modo di acclimatarsi al buio e all'atmosfera inquietante di un luogo perfettamente idoneo a sostenere le elucubrazioni paranoiche dell'architetto-castoro (ennesimo “incrocio”) protagonista del racconto di Kafka. Il resto, ovviamente, è stato solo merito – e assai cospicuo – del trio suddetto.

Monologo dal sottosuolo

Ho provveduto ad allestire la tana, e pare ben riuscita. Dall'esterno, a dire il vero, non si vede altro che un gran buco, che di fatto non porta da nessuna parte, dato che già dopo qualche passo si cozza contro la roccia naturale, dura e compatta”. Dall'inizio del racconto seguiamo le peripezie di questo “Io” che cerca di barricarsi dentro una sicurezza impossibile da trovare, avviluppandosi in operazioni di voluttuoso, quanto neurotico, isolamento. Inevitabile pensare qui al vaneggiamento sulla mancanza di protezione che vediamo proliferare anche attorno a noi, alimentato dalla paura nei confronti degli estranei, di ogni estraneo, di chi cioè crediamo voglia attentare al nostro benessere, alla nostra tranquillità, e perciò dev'essere arginato, cacciato, annientato. Puntandosi una luce in faccia e modulando sapientemente ora la voce, ora la sua riproduzione, nonché adoperando una gestualità di tipo espressionista, Flora Sarubbo ha reso in modo del tutto convincente per circa un'ora la deriva paranoica alla quale il personaggio si abbandona fino a naufragare nel delirio della presenza dell'ALTRO. ALTRO a un certo punto segnalato da un sibilo, da un fischio disturbante e indecifrabile, del quale si cerca la provenienza con sempre più affanno, nelle pieghe di un'ossessione che si nutre solo di sospetti: e se l'ALTRO, questo ALTRO che mai non si vede, non fosse che il riflesso deformato del proprio SÉ? Se il perimetro di sicurezze dentro il quale desideriamo rinchiuderci fosse, esso stesso, fonte di soffocamento e di massima insicurezza? Il monologo dal sottosuolo si spegne senza trovare una risposta, perché al culmine del dubbio, quando la verità potrebbe o dovrebbe lacerare la parete ormai sottilissima oltre la quale temiamo possa rivelarsi, ecco che tutto, “tutto invece è rimasto immutato...”.