Politik | Gastkommentar

Patetica quella lettera dei prof

Docente di Unibz in disaccordo coi colleghi della petizione: "L’idea che i docenti universitari israeliani siano cloni dello sciagurato Netanyahu è un’utile finzione. Triste che ci siano persone che credono in responsabilità collettive".
israele palestina striscia di gaza
Foto: Agenzia Nova
  • La petizione così accorata sottoscritta da molti accademici italiani in merito ai drammatici fatti di Gaza somiglia alla storia raccontata da Francesco Maselli in un suo film del 1970 Lettera aperta a un giornale della sera, dove “un architetto, un direttore editoriale, uno scrittore, uno sceneggiatore, uno scultore, un regista e un professore universitario”, rappresentanti di un ceto che non esiste più, quello intellettuale, ispirati da una forma estrema e delirante di narcisismo, scrivevano una lettera aperta con cui manifestavano l’intenzione di partire per il Vietnam e schierarsi con la resistenza filocomunista. Forse il titolo, Lettera aperta, copiava il titolo del primo romanzo, uscito tre anni prima, di Goliarda Sapienza (allora compagna di Maselli) che interpreta nel film un omonimo personaggio, una di quelle frequenti irruzioni degli intellettuali nel cinema così di moda in quegli anni. Pasolini aveva fatto recitare Morante e Agamben nel suo Vangelo, Antonioni aveva messo Quasimodo nel suo film La notte, nella scena della presentazione di un libro. Erano comparse naturali, contribuivano a rendere verosimile una certa maniera di rappresentare le élite riflessive; una cosa che sarebbe impossibile oggi, dove gli opinionisti (l’ultima tragica epifania dell’intellettuale) fanno irruzione nella tv cosiddetta generalista (o su Tiktok), non più nel cinema. 

    Il film di Maselli ci consegna un ritratto impietoso di quelle élite, che si specchiano nella loro lettera aperta ammirando in solitaria il proprio coraggio, quella che allora si chiamava coscienza morale. Che ovviamente non esisteva, era una specie di finzione, di alibi utile. A un certo punto la lettera aperta arriva sul tavolo dei capi della rivoluzione nel Vietnam del nord, che accolgono positivamente i nuovi arruolati, che però avevano scritto così per fare, come dicevo, per specchiarsi in quella lettera e riconoscersi finalmente nel ruolo dei rivoluzionari, di quelli che Thomas Bernhard chiamava i miglioratori del mondo. Imbarazzati e sgomenti, aspettano segretamente disperati il giorno della partenza, fino a quando non arriva, liberatoria, la notizia che no, il loro sacrificio non è più necessario, non devono partire. La parte penosa della lettera vera, quella degli accademici italiani, al di là dei refusi (raziale), e del ricorrere (tre volte) del termine completamente fuori luogo ‘coloniale’ per descrivere l’occupazione israeliana, è una certa idea del ruolo dell’Università: si raccomanda infatti la “necessità da parte dei singoli atenei italiani di procedere con l'interruzione immediata delle collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale e umanitario, cessati i crimini contro la popolazione civile palestinese da parte dell’esercito israeliano e quindi fino a quando non saranno attivate azioni volte a porre fine all’occupazione coloniale illegale dei territori palestinesi e all’assedio di Gaza”.

    Come il professore universitario del profetico film di Maselli, cercano anche loro, nella loro letterina, di combinare qualcosa di grandioso, provare a uscire dal guscio protetto del loro ingrato mestiere per entrare nella sala macchine della Storia. Dimenticando che in Israele, di questi tempi, le Università sono ancora un luogo dove è possibile pensare, formulare critiche. Per cui l’idea che ogni professore universitario israeliano, anzi ebreo, sia un clone dello sciagurato presidente israeliano è, anche questa, un’utile finzione. Cercare nelle università israeliane un avversario abbordabile è una delle operazioni più vili a cui io abbia assistito, ma sapendo che una lettera con cui chiedere solo il cessate il fuoco sarebbe suonata ridicola, i professori propongono qualcosa che pensano di avere titolo di chiedere, e magari il potere di realizzare. Ed è triste vedere, nonostante il Novecento, che ancora c’è gente che crede che esistano responsabilità collettive, che sono una caratteristica delle società primitive, il dispositivo con cui si giustificano pogrom, rastrellamenti e rappresaglie. Il problema è che, come vediamo ogni giorno, ci vuol niente che un lapsus ci faccia scivolare dagli israeliani agli ebrei come soggetto collettivo a cui imputare un torto storico. Di colpe collettive li si è già accusati in passato, proporrei di evitare che succeda di nuovo.

  • L'autore