Sogni o incubi? Per una terra futura…
Il titolo Fuga da via Pigafetta è forse un diretto richiamo a uno dei primi spettacoli di Paolo Hendel basati sui suoi esilaranti monologhi di satira pungente dei primi anni ottanta del ventesimo secolo, ossia Via Antonio Pigafetta Navigatore? Qui il personaggio di Hendel era un uomo impeccabile in abito grigio che snocciolava giochi di parole e tanto non-sense stando in piedi davanti a un leggio, mentre sullo schermo televisivo accanto appariva il suo perfetto doppio in veste di un presentatore alle prese con un telegiornale notturno, il quale via via entrava in un dialogo col primo, tanto più assurdo quanto surreale nel botta e risposta tra umano e non umano. Una trovata geniale, allora, il rapporto diretto con il mondo digitale!
Di relazioni tra i due spettacoli effettivamente ce ne sono parecchie: in Fuga… scritto con Gioele Dix (che ne firma anche la regia) e con Marco Vicari (entrambi anche collaboratori della trasmissione tv Zelig), il personaggio di Hendel è un signore attorno ai sessant’anni che vive nella sua casa monolocale ipertecnologica per difendersi da tutti i veleni che ormai infestano il pianeta Terra nell’anno 2080 di un prossimo futuro e, isolato dal resto del mondo, egli viene praticamente comandato dal suo stesso impianto hi-tech. Nestlé Monsanto Mitsubishi, questo il suo nome in quanto ormai ognuno vive di sponsor e li omaggia dandone il nome ai propri figli (tranne lui che la figlia l’ha voluta chiamare semplicemente Carlotta) conduce una vita solitaria in compagnia del suo computer che con un mega-schermo domina anche la poca scenografia sul palco. Innanzitutto è questo che gli concede l’accesso in casa o meno: se non indovina la password, il computer nega l’apertura delle porte. “Ah, com’era facile un tempo che bastava la chiave…!”
Quando finalmente pronuncia nome e data di nascita della figlia corretti, il nostro entra in scena, accolto da un grande applauso da parte del folto pubblico accorso al Teatro Puccini di Merano. Segue un lungo atto di decontaminazione di ogni parte del corpo, dentro e sotto la tuta di protezione, per poi finalmente comparire in un abito simil-pigiama e disporre gli oggetti della spesa, il motivo per l’uscita di casa. Elemento scenico dello spazio casalingo è una unica parete composta dalla porta automatica a due ante, il già citato schermo, sotto il quale esiste uno spazio per depositare gli abiti “per esterni” nonché il tubo dell’apparato decontaminante e subito vicino è incastrato un frigorifero, anch’esso dotato di un chip con intelligenza artificiale che sorveglia non soltanto il contenuto dello stesso ma anche la salute di chi lo usa. Accanto a questo blocco unico c’è una serra verticale con diversi reparti, in cui sono custoditi gli esperimenti dell’ex biologo e che impariamo essere una serie di peni in crescita, essendo lui separato dalla moglie da ormai dieci anni… Di battute dal doppio e triplo senso abbonda il testo, infatti, giocando in qua e in là – purtroppo – anche la facile carta di una certa comicità in auge da anni.
La figlia Carlotta, interpretata con garbo e delicatezza da Matilde Pietrangelo, appare ovviamente dapprima sullo schermo, per poi comparire poco dopo – a grande sorpresa per il personaggio di Hendel - dal vivo in scena. L’intero spettacolo si fonda sul discorso critico-comico-assurdo dell’oggi, del nostro uso eccessivo delle tecnologie, esagerando giusto un poco quello che già accade... Certo le risate ci sono, ma poche a dire il vero, forse perché sul palco si sta compiendo più una immagine a specchio - sebbene esasperata - per molti presenti? Come quando si descrivono le persone che ormai camminano ricurve, ognuna concentrata sul proprio smartphone? Oppure quando viene affermato che per colloquiare ci si manda una mail piuttosto che dire qualcosa ad alta voce a chi ci cammina vicino… O quando delira (?) sui troppi veleni presenti nell’aria, sulle polveri sottili che ci circondano ovunque?
La figlia ha studiato a Berlino, all’estero, e non è tornata in Italia per lavorare, no, ma per salutare il suo babbo in quanto da lì a poco sarebbe partita per compiere un progetto su Marte. Sì, sul pianeta rosso, ormai in fase di colonizzazione! E dopo un lungo andirivieni con tanto di ricerche internet su come affrontare i propri figli e numerosi preziosi consigli di ogni tipo cade quella battuta che Hendel nella descrizione dello spettacolo ha definito come la ancor più terribile di quella pronunciata prima dalla figlia, quando gli dice cioè, “Babbo, vado su Marte”: infatti per risolvere il problema dell’abbandono reciproco, lei gli chiede “Babbo, vieni anche te?”. Qui parte lo sproloquio forse più amorevolmente comico, nel senso che Hendel trova tutte le scuse immaginabili, non ultima la proposta di venirla a trovare per ogni Natale – ma soltanto dopo aver appreso dal compagno digitale che il viaggio dura sei mesi e che oltre a usufruire dell’animazione a bordo della navicella ci si può far addormentare…
Tra una visita e l’altra della figlia passa un momento di sonno tecnologizzato con infusioni di luci colorate per stimolare sogni che per il nostro Hendel sono incubi che lo scuotono sulla sedia che somiglia a un reperto sopravvissuto a qualche film horror degli anni quaranta hollywoodiano. Una volta svegliato e ripreso il dialogo con il suo nuovo “alter ego”, il programma installato ai fini di insegnare il sense of humour al suo compagno digitale, si mette a cucinare le cavallette comprate al supermercato secondo una ricetta suggerita sulla confezione. Non fa in tempo però a finire quel piatto, che il discorso sui cervelli e i figli in fuga continua, appena Carlotta riappare, per sfociare in una canzoncina dell’infanzia con tanto di “sciacquone” – mimato - e simbolico?