The Spank
Vargas e Sonny sono amici da lungo tempo, vivono a Londra e solitamente si incontrano al pub, lo Spankies (Spank per loro), divenuto la casa di un’amicizia coltivata nella consuetudine delle chiacchiere da bar.
Vargas è farmacista, Sonny è dentista, entrambi sono figli di immigrati che “ce l’hanno fatta”, sono uomini di successo, con una famiglia e una vita agiata. Ma un giorno succede qualcosa che cambierà tutto e da cui nessuno tornerà indietro, una parentesi che si apre e si chiude sull’amicizia profonda tra questi due uomini, e che ne esplora un’ampia e intrigante gamma di emozioni.
A narrare la vicenda è Hanif Kureishi, scrittore contemporaneo anglo-pakistano tra i più apprezzati, mentre in scena ci sono due amici veri, due magnifici attori, Filippo Dini (Vargas) e Valerio Binasco (Sonny), con la regia di Filippo Dini.
Li incontro dopo il debutto di giovedì, a cui non potevo mancare.
Salto.bz: La cosa particolare per me oggi, è fare questa chiacchierata con voi dopo aver già visto lo spettacolo. Destrutturo completamente la “scaletta” di domande che avevo pensato, e lascio spazio alle mie curiosità. Innanzitutto, alla mia sorpresa di fronte alla relazione amicale tra Vargas e Sonny. Se normalmente l’amicizia tra uomini ci viene proposta nelle sue manifestazioni un po’ superficiali, anche corporee, in The Spank si è svelata l’amicizia tra due uomini, per altro estremamente diversi, fatta di dialoghi molto profondi.
Filippo Dini (ride): c’è un pregiudizio un po’ nei confronti degli uomini…
E’ così, lo ammetto, ma anche nei film nostrani, l’amicizia maschile è rappresentata …
F.D.: …un po’ tribale.
Sì, apparentemente superficiale e anche se naturalmente questa ne è una mera rappresentazione, forse non ci si immagina spesso “il parlarsi” a quel modo. Voi vi riconoscete in questa forma di amicizia?
F. D.: Sento come se tu dicessi “ma, addirittura parlate?” Sì, personalmente mi riconosco e credo che la forza del testo sia proprio questa, nella dimensione di questo dialogo, nello stile di questo dialogo e che è assolutamente legato al luogo nel quale viene fatto, cioè sono chiacchiere da bar. Tu le hai trovate anche più profonde di quello che ti immaginavi, però in realtà hanno sempre un'apparenza di leggerezza, e questo permette contemporaneamente di frequentare moltissimi temi, anche molto profondi. Quello che io credo è che lo spettatore si porti a casa, non tanto l'analisi di alcuni concetti legati al nostro contemporaneo e soprattutto alla visione della famiglia - alla sua degenerazione come concetto, come di stile di vita - ma molte domande. L'approfondimento, io immagino, lo farà poi ognuno dentro di sé, nel suo intimo.
Sì, anche perché i temi che affiorano ci prendono in causa tutti, la genitorialità, l’amore, la famiglia, il sesso, la fedeltà e l’amicizia stessa. Vargas tradisce l’amico Sonny – probabilmente per dimostrare a se stesso che la scelta di investire tutto nella, e per la famiglia, sia stata quella giusta - eppure questo tradimento non causa la rottura dell’amicizia. Un fatto per me difficilmente pensabile, se lo stesso fosse avvenuto tra due donne. Chiedo a Valerio, perché secondo te Sonny accetta questo tradimento?
Valerio Binasco: Allora! Io accetto quello che accetta Sonny. Non so poi cosa ci sia profondamente, ma io sposo completamente il mondo di Sonny, seppure anch'io avrei delle domande da fargli. Credo che un'amicizia così come la state descrivendo, ed è giusto che ti abbia colpito, perché colpisce, sia rara come lo è una grande storia d'amore, non è meno particolare, è ugualmente speciale ed è un dono. Accade qualcosa di grosso nella vita di una persona, ad avere un amico che è “casa”. E’ una casa parallela all'altra casa, quella più famigerata, più inquinata da egoismi, da quell'inferno di solitudini, recriminazioni, e ogni tanto isole d'amore, che è la casa della famiglia - chiamiamolo appartamento-. Tant'è vero che non è una casa, è un bar, un luogo di passaggio. Trovare un amico con cui senti di essere al sicuro, quello è il compito dell'amicizia. Un amico non ti giudica mai, si incazza magari, magari c'è la volta che ti dà un pugno in faccia se hai bevuto un bicchierino di troppo, ma non c'è mai giudizio. Cosa vuol dire che non c'è mai giudizio? Che l'amore che lega due uomini in stato di grazia di amicizia, non è condizionato. Mentre l'amore che lega un uomo una donna, o due amanti di tutti i sessi possibili, è condizionato da una sorta di prestazione all'interno di quel cesso che è l'appartamento coniugale in cui vanno a confluire tutti gli escrementi possibili.
Possiamo dire che il contesto coniugale, da qui, non ne esca proprio bene…
V.B.: Assolutamente! Io sono condizionatissimo dai lavori che faccio, non sono esente da essere plasmato dalle cose che faccio, che entrano nella mia vita e viceversa, per cui in questa fase sono completamente da quella parte lì, in zona Sonny diciamo. Però, quello che volevo dire è che ciò che hai visto, non è “l'amicizia fra gli uomini”, ma l'amicizia quando riesce e trova un qualcosa di raro proprio perché è veramente incondizionata. Quando Vargas racconta a Sonny la ragione per cui lo ha “tradito”, all'inizio lui non capisce “Ma si può sapere che cazzo fai? Non sei tu.” E Vargas gli dice “Ti spiego”, si impegna molto, un altro potrebbe dire “ciao, non capisci niente, me ne vado, non ti parlo più” e l’amicizia finirebbe, questi due invece vanno avanti un sacco. E quando Sonny lo ascolta, lo capisce e dice “E’ vero”. Sonny forse non arriva a un tale livello di autocoscienza, perché è preso dagli eventi in maniera più drammatica di me, che invece ascolto un po’ meglio, e io dico “sono io quello che l’ha tradito, non dovevo dirglielo”. Certo, Vargas l’ha voluto sapere, mi ha fatto la domandina e io potevo dire una pietosa bugia o glissare da un'altra parte, invece l’ho coinvolto molto profondamente e questo lo ha costretto a tradirmi, perché il rapporto che lui aveva con sua moglie è superiore a quello che aveva con me.
Quello che io credo è che lo spettatore si porti a casa, non tanto l'analisi di alcuni concetti legati al nostro contemporaneo e soprattutto alla visione della famiglia - alla sua degenerazione come concetto, come di stile di vita - ma molte domande
Forse Sonny glielo ha confessato apposta?
V.B.: Queste sono tutte quelle seconde, terze, quarte interpretazioni che non hanno assolutamente torto, ma nonostante ci fosse uno scontro fra loro tutte le sere sulla interpretazione della vita, - tra uno che va di nervi, di pancia e crede a una realtà fatta solo di filia, e l'altro invece che cerca di immettere in questa filia un po’ di sofia, ragiona-, continuano a confrontarsi. Anche quando Sonny diventa una sorta di barbone, non cambia nulla, perché questa è l'amicizia, questa è una forma d'amore rara, che quando accade è la cosa forse più augurabile che ci sia.
Alla fine dei conti, a me sembra che entrambi escano “perdenti” da questa vicenda, per lo meno fino al momento in cui si dà di sapere cosa avviene. Sonny decide di andarsene, perde la famiglia, perde il suo luogo - anche se si spera per lui che acquisti molto altro - e Vargas perde quell’idea di famiglia come luogo intoccabile. Sua moglie inizia ad avere l’orticaria, è depressa, subisce. In realtà tutto si è…
F.D.: … si è rovinato, si è corrotto. Sì, però io non credo ci sia la presa di un punto di vista sugli uomini e sulle donne. Anche le donne perdono, sono totalmente sconfitte. Prima fra tutte c'è una vittima innocente che è Leila, e poi ci sono le altre vittime corresponsabili che sono le mogli, artefici del fallimento di queste due famiglie. Credo che la questione fondamentale sia proprio un punto di vista su questo “cesso di appartamento” che è la famiglia.
Insomma, nella prospettiva di Kureishi, la famiglia sembra piuttosto mal messa di questi tempi. Ce la farà?
V. B.: Ora, queste sono opinioni che io mi trovo a condividere per vari motivi, nel senso che, ti ripeto, mi attraversano molto le cose che faccio, e in questo caso sono tutto pregno di questo tipo di opinione di Kureishi - può darsi che poi cambiando le cose ne avrò altre, il che non guasta – ma, entrando nel suo mondo, non ti sorprendi nel vedere The Spank, che tutto sommato sviluppa le tematiche di questo scrittore un po’ all'acqua di rose rispetto a quello che leggi nei suoi romanzi, che sono delle vere e proprie spade piantate nella carne. E dove il tema è proprio quello e sembrerebbe che per Kureishi esistano due assunti che lo caratterizzano. Nei suoi romanzi, anche se si parla di politica, di immigrazione, queste sono tutte un po’ balle per infilarci sempre il percorso all'interno della famiglia, che viene rovesciato. Quest’uomo scrive sempre delle love stories - un po’ come i film di Woody Allen, che sono love stories in cui si infila un demone di inquietudine e di insaziabile voglia di fare casino - però in lui c'è un'altra cosa: la love story rovesciata. La love story classica è la storia tormentata di due amanti che affrontano i tormenti per arrivare al matrimonio. Lui invece ti racconta una love story dove c'è la storia tormentata di due coniugi che affrontano i tormenti, e finalmente uno se ne va. L’happy end è “un’altra”, cioè la fuga da questo esilio dell'anima che è la cultura matrimoniale per come l'abbiamo ereditata, ma che non abbiamo più le palle per reggere, o ne abbiamo troppe per poterci adattare a quel cesso di appartamento nel quale veniamo relegati, come un 41bis senza speranza. (si ride, tutti). E questa è una cosa importante. L'altra cosa che viene fuori nei suoi romanzi e anche un po’ da frammenti di dialoghi fra me e Vargas, è la fiducia nell'amore, che c’è, tantissimo. E’ come se ti dicesse “Occhio, perché la famiglia è il luogo meno adatto per far fiorire, sviluppare, l'amore. E’ proprio il luogo che lo spegne se non si sta più che attenti, o se non si è uomini arcaici, per cui la famiglia diventa muraria. Ma se non è muraria, attenzione! Perché è il luogo meno adatto per far vivere un amore.”
Hanif Kureishi scrive sempre delle love stories - un po’ come i film di Woody Allen, che sono love stories in cui si infila un demone di inquietudine e di insaziabile voglia di fare casino
Una visione realista, per certi aspetti, dall'altro...
V.B.: …pessimista! Di solito si cerca di attenuare la parola pessimista bollandola di realismo.
Inoltre voi, nella fase della messa in scena, vi siete confrontati proprio con Kureishi, cosa avete cambiato del testo originale?
F.D.: In realtà, a parte alcuni tagli che abbiamo fatto e che gli ho comunicato quando ci sentivamo, l'unico cambiamento grosso che è stato fatto è l'aggiunta di alcuni pezzettini di Vargas che continua a raccontare, cioè continua a far vivere questa dimensione da flash back, in cui lui cerca di capire che cosa è successo.
Da noi non accade di frequente che si abbia un confronto con l’autore mentre si mette in piedi lo spettacolo, come cambia il modo di lavorare?
F.D.: E’ stata un'esperienza veramente bellissima. Ho scoperto che succede di rado in Italia, mentre molto frequentemente dalle altre parti. Infatti i miei timori, all’inizio del lavoro, erano proprio che, essendo l'autore vivente, non si potesse cambiare niente. Invece mi è stato detto “No! in Inghilterra funziona in un altro modo”. E lui, se non ci fosse stata la pandemia, sarebbe venuto ad assistere alle prove, proprio per loro abitudine e non per giudicare, ma per lavorare insieme a noi, per vedere dove andava lo spettacolo e magari modificare in diretta.
Potrebbe essere una buona prospettiva per i giovani drammaturghi italiani?
V.B.: I giovani drammaturghi italiani, prospettive ne hanno. Se vogliono confrontarsi con qualcosa, sono molto meno soli di quello che credono. Sono in pochi, sono un po’ chiusi in un recinto autoreferenziale, sono ancora ostaggio dei critici. Devono liberarsi.
Nel senso che sono loro a doversi liberare da questo ostaggio?
V.B.: Secondo me sì.
F.D.: Viene sempre data la responsabilità ai teatri di non fare abbastanza drammaturgia italiana, ma una grande responsabilità ce l'hanno anche gli autori italiani. Non hanno fatto proprio il meglio che potevano, secondo me.
V.B.: Però vedo che si stanno trasferendo un po’ tutti nel mondo della fiction, sono dei buoni scrittori di dialoghi da fiction. Credo che abbiano trovato un territorio di emancipazione, può darsi che tornando al teatro si sentano poi liberi dalla responsabilità di dover prendere il premio Ubu, o quelle stupidaggini lì.
Voi siete entrambi attori e registi, qui Filippo Dini è regista di Valerio Binasco, ma è anche suo compagno sulla scena. Per voi la domanda classica: è la regia al servizio della recitazione o la recitazione al servizio della regia?
V.B.: Qui però dobbiamo rispondere tutti e due!
Certo, io l’ho fatta a tutti e due! Immagino che lavorando insieme in questo connubio, una visione comune la dobbiate avere!
F.D.: Noi raccontiamo questa storia spesso, perché è stata una novità. Sicuramente lo è stata per me, al massimo grado. E’ ovvio che l'attore viene prima di qualsiasi impianto registico, o per lo meno, l'impianto registico dovrebbe essere così illuminato da ascoltare sempre dove sta andando l'interpretazione degli attori. In questo caso lo è stato totalmente. Noi non ci siamo mai confrontati, e questa è la cosa della quale vado più orgoglioso. Ci siamo visti e ci siamo detti “Va bene, io mi studio la mia, tu ti studi la tua e ci vediamo allo Spank”.
V.B.: Le prove sono state proprio quelle! Io non sapevo nulla di quello che lui mi avrebbe detto, sì l’avevo letto, ma non era meccanizzato nulla, siamo entrati in relazione immediatamente, per cui io portavo avanti la mia, lui la sua, lo scontro. Ognuno aveva il suo materiale drammaturgico perfettamente assimilato, ma non quello dell'altro e io non sapevo niente di che cosa dovesse accadere secondo la regia, ma la regia ha detto “Accade quello che facciamo accadere”. Abbiamo fatto otto giorni di prove, poi siamo andati in scena. Era questa la metodologia che abbiamo adottato.
F.D.: E ancora adesso continuiamo a fare così.
V.B.: La bellezza di lavorare con Filippo, una volta sviluppato al massimo questo metodo, è proprio che, se solitamente quando lo spettacolo prende una forma, quella è, qui invece no! E’ rimasta questa cosa aperta e la qualità di quello che noi chiamiamo “l'ascolto”, e non intendo l’ascolto delle orecchie, ma quello che ti muove delle cose dentro, che dà ritmo, cambiamenti nella qualità del rapporto - perché io cambio sulla base di quello che gli vedo fare oppure che credo stia pensando, e lui viceversa - questa qualità di ascolto è rimasta sempre. E’ la base su cui avviene tutte le sere il gioco che facciamo in scena, e non mi era mai successo, perché più o meno poi le cose si ficcavano nel loro tassello giusto. In questo caso è bellissimo, perché ci guardiamo con quell’aria quasi un po’ rassegnata (si ride)
F.D.: Anche perché credo che a nutrire tutto quanto sia stato quello strano brivido iniziale, cioè quegli occhi felici di quando pensavo “E adesso? Chissà cosa succederà”. E’ un gioco che, almeno per quanto mi riguarda, è difficilmente replicabile. Funziona in due, soprattutto NOI due. Ci siamo lanciati come in un vortice, ma sapendo che in qualche modo ne saremmo usciti.
V.B.: Sì, perché c’è molto rispetto. Questa metodologia potrebbe dare il la a dei gigioni per fare chissà che cosa, oppure a dei rivali che vogliono la risata, l’applauso. A noi questa cosa non è mai successa, è proprio un gioco.
Quanto ride il pubblico?
V.B.: Beh, qui a Bolzano pochissimo, abbiamo fatto delle repliche a Roma, dove sembrava una sitcom, da dire “Basta, fateci lavorare!” E’ anche vero che a Roma c’è un pubblico narcisista, che vuole farsi sentire. Comunque il testo in effetti tende a essere molto umoristico. Quando ho parlato di Woody Allen, non era un caso.
F.D.: E l’autore ha piacere, al divertimento. Gli piace ridere e gli piace far ridere, gli piace ridere della vita.