La filosofia presocratica come spunto per una critica al capitalismo moderno
Sono fermamente convinto che le cause del fallimento del capitalismo vadano ricercate volgendo lo sguardo al passato, scavando là dove mai ci aspetteremmo di trovare risposte. A questo proposito diventa lecito domandarsi: la sapienza antica ha qualcosa da insegnarci e, in questo caso, quali sono i suggerimenti che dottrine apparentemente lontane sono in grado di fornirci in merito a problemi peculiari all'economia moderna? Non è banale rispondere a questa domanda. Pertanto, quello su cui mi piacerebbe che il lettore interessato si soffermasse è il senso della ricerca filosofica nella Grecia a cavallo tra il VII e V secolo a. C. dove fiorirono rigogliose numerose correnti di pensiero definite presocratiche dalla storia della filosofia. I suoi protagonisti vengono convenzionalmente identificati come filosofi naturalisti. Concetti come la ragione, l'essere e l'atomo sono stati codificati in questo momento storico e le dottrine di alcuni di questi pensatori sono all'origine del pensiero scientifico moderno. Nell'ampia platea di teorie concepite in quegli anni, spesso con esiti tra loro contrastanti, il tratto comune che è possibile riconoscere è la ricerca spasmodica di un'invariante, elemento rispetto al quale la mutevolezza del mondo ed i suoi limiti possono essere riconosciuti e compresi. L'invariante è la condizione necessaria alla conoscenza della realtà, misura di tutte le cose, senza il quale l'uomo non è in grado di orientarsi e di orientare. In altre parole, tutto si traduce con la ricerca di un principio (lògos), regola che governa il mondo da cui discende che“da tutte le cose l'uno, dall'uno tutte le cose” (Eraclito). Questa unità sottende cosi all'esistenza di una ragione cosmica, un nous (intelligenza) ordinatrice della realtà in cui ogni cosa ha la sua giusta collocazione e di cui anche la ragione umana è partecipe. Questi principi di fondo sono lontanissimi da quella visione antropocentrica che da un certo momento in poi ha dominato la società, condizionandone profondamente la prassi. Al contrario, come ammette il filosofo Giovanni Reale“[...] l'uomo veniva interpretato come una delle cose accanto alle altre in dimensione cosmica, come “oggetto” e non come “soggetto” in senso vero e proprio”. Al di là delle specifiche considerazioni di carattere strettamente filosofico, questa idea dell'unità del cosmo e del ruolo gregario dell'umanità rispetto alla realtà costituita assume un significato cruciale nella critica al capitalismo individuandone i limiti nel rispondere compiutamente ai bisogni dell'umanità. Dalla nascita della scienza moderna, lo sviluppo della conoscenza specialistica ha indotto allo smarrimento di quella idea della reductio ad unum, dominante nella coscienza dell'uomo greco. Il nozionismo esasperato che ne è conseguito ha certamente ampliato il campo d'indagine della scienza, dimenticando tuttavia il fine di concepire un quadro unitaria sul funzionamento dei meccanismi che governano il mondo; in questo senso, la disciplina della scienza economica non fa eccezione.
La teoria economica formalizzata nel 1776 dall’accademico scozzese Adam Smith nel suo “La ricchezza delle nazioni” ha presto influenzato la prassi delle politiche commerciali e finanziarie del mondo. La divisione del lavoro, la libertà degli scambi e l’accumulazione del capitale sono i capisaldi della teoria economica smithiana. I tre principi si implicano a vicenda e costituiscono il DNA che replica un sistema in cui la crescita della produzione va di pari passo all’incremento della divisione del lavoro. L’aumento di produttività che ne consegue è alla base dell’accumulo del capitale; il guadagno ottenuto dalla vendita dei prodotti su mercati in cui le merci circolano liberamente, al netto della remunerazione dei salari dei lavoratori, della rendita dei proprietari terrieri e del profitto dell’imprenditore, costituisce cosi quella dotazione che consente di riavviare il ciclo produttivo, espandendolo all’infinito.Tutto ciò lascia spazio a due ordini di problemi. Come ebbe modo di rilevare lo stesso Smith, la parcellizzazione del lavoro, unita alla separazione tra forza lavoro e proprietà del capitale, non avrebbe consentito di eliminare completamente la diseguaglianza, rendendola cosi elemento “naturale” del sistema capitalistico, punto su cui si svilupperà l’anticapitalismo di Marx. La seconda questione è quella legata all’espansione infinita della produzione, aspetto che presuppone una crescita adeguata della domanda e quindi del consumo. Non doveva apparire irrealistico nel XVIII secolo immaginare un mondo dalle risorse inesauribili, dove i bisogni della popolazione potessero essere soddisfatti da un meccanismo di mercato che garantisse valori di prezzo idonei a comunicare la scarsità relativa di un bene consentendone cosi un allocazione efficiente ed adeguata. Oggi sappiamo che non è cosi. I limiti legati alla scarsità delle risorse sono evidenti ed il sistema capitalistico regge il suo funzionamento sempre più su una domanda indotta di beni e servizi non essenziali; eppure le logiche che sottendono allo scambio delle merci sono rimaste essenzialmente immutate, supportate da una rapida circolazione delle informazioni che ha reso ancora più perniciosa e sistemica la forma mercato, non solo nei rapporti economici. Alla luce di ciò, mi pare rilevante sottolineare come il capitalismo moderno si sia strutturato liberandosi artificiosamente dai legami con il mondo fisico, di cui costituisce comunque una parte essenziale, al punto tale da minarne gli equilibri (si rammentino gli effetti del riscaldamento globale, la desertificazione delle aree agricole, i fenomeni di dissesto idrogeologico legati alla cementificazione, ecc.). Per riallacciarci all’ampia introduzione a questo articolo, l’uomo moderno ha perduto la percezione del legame con la natura e con il suo logos, relativizzando la realtà. Cosi, come afferma il sociologo Zigmut Baumann, gli individui della società contemporanea hanno perso lo status di “produttori” consapevoli per assumere quello di consumatori acritici e sostanzialmente deresponsabilizzati. E la misura del cambiamento potrebbe essere rappresentata emblematicamente nella distanza tra la profonda umanità delle preghiere Sioux al bufalo, fonte insostituibile di sostentamento della popolazione nativa nordamericana, e la banalità del Menù Cheeseburger di un qualsiasi ristorante McDonald’s. È lecito domandarsi, dunque, se una certa cultura antagonista abbia concepito una struttura teorica in grado di ricomporre la frattura delle scienza economica con la realtà fisica e se sia riuscita a individuare quell’invariante attraverso la quale misurare e giudicare gli effetti dell’agire umano, per ricondurlo nell’alveo del “giusto”. La creazione dell’economia ambientale potrebbe apparire a prima vista la risposta al nostro quesito. Tuttavia questa nuova disciplina, pur inglobando nel sistema economico variabili considerate esogene dalla teoria economica classica (beni come l’aria, l’acqua, suolo, servizi come quelli garantiti dai sistemi ecologici e “mali” come l’inquinamento), ne lascia immutate le premesse: la sovranità del consumatore, la fiducia nell'efficienza del mercato e nel meccanismo dei prezzi, ecc. Ed immutato resta l’approccio utilitaristico del valore economico degli elementi costitutivi della natura e delle sue risorse, non scalfendo il carattere antropocentrico sotteso alla sua visione del mondo.
A mio parere è opportuno focalizzare l’attenzione verso altri ambiti delle scienze umane ed una risposta interessante in questo senso la fornisce il concetto di eMergia. L'ecologo Howard T. Odum ha definito L' eMergia “come l'energia solare totale equivalente che viene usata sia direttamente sia indirettamente per produrre beni o servizi”. Questa grandezza fisica introduce un’ottica ecocentrica nel computo del valore energetico della realtà fisica. Per la prima volta viene stabilito un solido fondamento teorico grazie al quale il valore dei beni e servizi prodotti dall’uomo e di quelli frutto dei processi biogeochimici naturali può essere confrontato utilizzando un’unità di riferimento comune; in altri termini, il valore di ogni elemento costitutivo del mondo fisico non è più relativizzato da variabili come domanda ed offerta, ma viene stabilizzato da quella sorta di “memoria” energetica che è appunto l’eMergia. In ultima analisi, grazie ad essa, l’energia solare si conferma essere il principio di qualsiasi fenomeno fisico, chimico e biologico, incluse le attività di trasformazione umana che sono alla base della economia, connaturandosi come l’unica vera invariante cosmica. Per chiarire il concetto, il valore di “mercato” di un barile di petrolio non è calcolato sulla base della domanda e dell’offerta, ma sul valore energetico (espresso in Joule) immagazzinato nei millenni in tutti i processi biogeochimici che sono alla base della formazione di quel barile di petrolio. In quest’ottica, per esempio, il valore di produzione di energia dal vento, (tenuto conto delle infrastrutture create ad hoc per il suo sfruttamento) risulterebbe eMergeticamente molto più basso rispetto a quello della produzione di energia derivati da processi di produzione alimentati ad olio combustibile.
Al di là delle considerazioni metodologiche sulla reale possibilità di computare correttamente il valore eMergetico di qualsiasi bene o servizio, l’idea di base di questa metodologia convince perchè assicura l'espressione del valore di qualsiasi elemento presente in natura, partendo dalle sue caratteristiche immanenti, senza ricorrere all’artificio del valore monetario. Orientare le scelte politiche ed economiche anche sulla base del valore eMergetico connesso a tali scelte sarebbe un segnale culturale importante verso l'emancipazione da quella che qualcuno definisce la "dittatura dei mercati". È innegabile infatti, lo sforzo etico che la comunità umana dovrebbe intraprendere, ritrovando la consapevolezza degli antichi sapienti di essere parte di quell'intelligenza universale di cui l'uomo moderno ha perduto memoria.