Kultur |

La morte di Virgilio di Hermann Broch

Una straordinaria lettera del grande scrittore austriaco Hermann Broch a Hermann Weigand su uno dei romanzi irrinunciabili del Novecento. 12 febbraio 1946.
La morte di Virgilio è un romanzo con una struttura di amplissimo respiro dove la poesia diventa il metro e la fibra di una cifra narrativa originale e meditata capace di affrontare il dramma e il dolore del mondo.
La morte si annuncia con l'impulso filologico di uno dei più profondi autori europei costretti all'esilio statunitense dell'anima.
Hinweis: Dieser Artikel ist ein Beitrag der Community und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.
foto_governance.jpg
Foto: sparkasse

"Vorrei in primo luogo raccontarle la storia del mio incontro con Virgilio, dato che Lei più volte si occupa della scelta del mio tema. Ebbene, non si è trattato affatto di scelta, ma di un mero caso. Per la Pentecoste del 1935 fui invitato a aprire il programma speciale della radio di Vienna con una lettura delle mie poesie. Io per principio detestò le letture fatte dai poeti, particolarmente quelle della radio: so infatti fin troppo bene quanto annoino il pubblico (e, nel caso mio, anche il dicitore). Perciò andai dal direttore dei programmi letterari, che sintomaticamente si chiamava Nuchtern, e gli proposi che mi concedesse di leggere qualcosa di più interessante, per esempio, su un argomento di filosofia della storia: La letteratura alla fine di una cultura. Ma non ebbi fortuna: 'No', disse il dottor Nuchtern 'non si può; scegliendo questo tema lei sconfinerebbe nella sezione scientifica e ciò creerebbe difficoltà contabili. Deve assolutamente leggere qualcosa di poetico. Così, resomi conto che la contabilità è una divinità suprema - davvero il Fato del nostro tempo -, gli promisi di ridurre in forma di novella il mio argomento Fine di una cultura e letteratura. Mi misi dunque a riflettere sul modo migliore per assolvere a un tale compito, e non ci vollero molte riflessioni per avveder i di certi paralleli tra il primo secolo avanti Cristo e il nostro - guerra civile, dittatura e decadenza delle vecchie forme religiose. Anzi, persino nel fenomeno dell'emigrazione c'era un parallelo significativo e particolare: Tomi, il villaggio di pescatori sul Mar Nero. Sapevo inoltre della leggenda che pretende che Virgilio avesse avuto l'intenzione di bruciare l'Eneide, e mi era quindi lecito supporre - accettando la leggenda - che a una decisione tanto disperata uno spirito come quello di Virgilio non dovesse esser stato spinto da motivi irrilevanti, ma dovesse anzi avervi influito l'intero contenuto metafisico e storico dell'opera sua. Tenendo presenti queste considerazioni, la mia decisione fu presto presa.

"Ma altrettanto rapidamente mi accorsi anche che Virgilio non era morto a Tomi. Sarebbe stato però assurdo per un motivo così esteriore abbandonare Virgilio per Ovidio, e così restai a Virgilio. Dante, invece, non ha avuto nessuna parte nella ideazione del progetto. A parte il fatto che si trattava solo di una novella destinata alla radio, detesto i motivi e le motivazioni 'letterarie'. Chi si prende un Dante come padrino del proprio lavoro, si mette abilmente su un piano di solennità letteraria che toglie a priori ogni autenticità.

Non è possibile 'evocare' di proposito i grandi spiriti del passato: quando vengono a noi, essi arrivano furtivi dalla porta di servizio, inviati dal 'caso', da quel caso che è tanto affine al 'miracolo' da poterlo considerare a buon diritto fonte di 'autenticità '. Che Virgilio mi sia affiorato alla coscienza casualmente, ha per me qualcosa di rassicurante, come se mi desse la conferma che non ho fatto opera di mera 'letteratura'.

"il primo canovaccio, la novella radiofonica, era dunque un lavoretto assai rudimentale, di nemmeno venti pagine. Ma naturalmente già in quella prima stesura mi ero accorto della ricchezza del tema. Fu una sensazione così forte e prepotente che subito smisi di lavorare a un romanzo già quasi ultimato: ampliai la stesura originale sino a quasi ottanta pagine, e poiché questa si era rivelata a sua volta una misura insufficiente per padroneggiare la pressoché  inesauribile massa di motivi che venivano affollandomisi, non restava che una soluzione: avere cioè il coraggio di misurarmi con essi e - senza fissare limite di tempo - decidermi a tentarne l'elaborazione.

"A questo si aggiunse poi un ulteriore motivo. La minaccia di morte che proveniva dal nazismo assunse forme sempre più concrete. Non era più possibile fingere di non vedere, le illusioni non erano più possibili. Certo, per noi in Austria non era (1936) ancora immediatamente attuale, e per questo, legato com'ero dai vincoli familiari, continua a rimandare la fuga, forse anche soggiacendo al fascino sottile che emana dal pericolo. In ogni caso, tuttavia, era una situazione che mi costringeva in modo sempre più pressante a una preparazione alla morte, per così dire a una privata preparazione alla morte. E appunto in una tale preparazione si trasformò il lavoro di composizione del Virgilio e proprio per questo libro, come Ella ha giustamente notato, ha rotto completamente il quadro imposto dalla figura storica e dall'opera di Virgilio, diventò l'immaginazione della propria morte.

"Quegli anni (compreso il periodo trascorso in carcere) furono una concentrazione costante, intensissima, sull'esperienza di morte. Il fatto che contemporaneamente io stessi scrivendo un 'libro', diventò accessorio. Lo 'scrivere' doveva unicamente servire come tramite per fissare questa esperienza, come mezzo di chiarificazione; era dunque un atto del tutto privato, che nulla più aveva da spartire con la convinzione di star scrivendo un' 'opera d'arte' o con il pensiero della sua pubblicazione, a parte poi il fatto che per motivi estrinseci (Hitler) non vedevo più possibilità di pubblicare. E accanto a questa esclusione di ogni estrinseco, c'era e con la medesima urgenza, la esclusione totale in ogni cosa 'appresa'. La concentrazione su un unico punto non mi consentì di impiegare 'materiale di origine culturale'. Eppure l'emergere dall'inconscio dei più svariati simboli della morte, tratti dalla sfera delle antiche religioni, costituì una felice sorpresa, poiché  non solo corroborava di verità il loro intrinseco contenuto, ma anche il contenuto delle mie rappresentazioni. Nemmeno la costruzione retrospettiva, nella quarta parte del libro, è stata un'astuzia a freddo. Al contrario mi si è imposta con forza la necessità, e cioè nella forma di immagini che, benché inizialmente disordinate, già in se' recavano il principio del loro ordine futuro: e non potei che accettarne il dettato.

"Solo dalla logica dei fatti sorge la plausibilità, e plausibilità è 'conoscenza'. Certo, ero pervenuto a una plausibilità e a una conoscenza - conoscenza della morte - soggettive; e non potevano che essere soggettive perché  l'esperienza mistica nel suo inizio, anche quando è un inizio di conoscenza, affiora sempre come esperienza personale, privata. Il profeta tuttavia ha la possibilità (e dunque anche il diritto) di portare a conoscenza dei suoi simili, come verità obiettiva, la propria esperienza di veggente, ma colui la cui esperienza non giunga sino alla grandezza profetica ha la possibilità, l'autorità o magari  l'obbligo di una simile obiettivazione e annunciazione?

"È questo un problema specifico del Virgilio. Il non profeta infatti diventa artista, dunque un uomo che sta sul confine della profezia, con un'esperienza mistica troppo limitata per esprimersi immediatamente in forma religiosa, pur volendo ciononostante esprimersi. L'arte, dunque, benché mai possa sottrarsi  - nella misura in cui è autentica - a un'esperienza mistica iniziale, è tuttavia un "surrogato": non è come la diretta partecipazione profetica, ma un complicato apparato espressivo che si serve di simboli o, più esattamente, produce simboli, facendo entrare certe unità d'espressione in certe funzioni d'equilibrio e in questo modo conferendo loro appunto una 'plausibilità'. Nell'operazione di sfaccettatura, però, i diamanti si riducono di dimensione, anche se cresce la possibilità che essi vengano usati per il lusso e aumenta il loro valore venale. Insomma, con il lavoro di sfaccettatura l'artista si vede inevitabilmente privare del vero e proprio reperto conoscitivo originario. È  una metafora, ma per me è stata anche un'esperienza: i tre anni passati alla "sfaccettatura" del Virgilio hanno considerevolmente cancellato l'esperienza della conoscenza della morte di cui avevo avuto un presagio, benché ora fosse stata accessibile anche a altri. Da ciò traspare il malessere implicito nella bestemmia - e anche questo ho tentato di esprimere nel Virgilio - e indubbiamente più l'esperienza mistica iniziatica è intensa e autentica, più questo carattere blasfemo dell'arte si rafforza. Appunto in un'epoca come la nostra che per la sua nuda rozzezza altro non riesce a sopportare se non ciò che è assolutamente immediato e a tutto il resto rifiuta consistenza, più mi fa perspicua l'inadeguatezza dell'espressione artistica. Ha tutte le ragioni quindi lei di sollevare la questione del perché tutto sommato, io abbia pubblicato il Virgilio anziché farlo alle fiamme o almeno tenerlo nel cassetto. Vanità d'artista, ambizione d'artista? Può darsi, ma soprattutto la fuga davanti alla prospettiva di non poter saldare un debito artistico già contratto. Ero arrivato in America con il Virgilio incompiuto, e tante persone e istituzioni mi accordarono fiducia nonché aiuto concreto per portarlo a termine, che non potei assolutamente non tener fede alla promessa. Tanto più che ora approfitto della medesima fiducia per il lavoro politico-psicologico al quale sto attendendo, e che per me è molto più importante del Virgilio, giacché spero possa dare un piccolo contributo agli sforzi tesi a salvaguardarci da una ripetizione dell'orrore  universale che abbiamo vissuto.

"Mi si potrebbe tuttavia opporre che un sacrificium mentalità non può esser in nulla giustificato e che, nonostante i miei  sessant'anni, i mezzi per il lavoro scientifico avrei potuto guadagnarmeli con la politura delle lenti o facendo il lavapiatti, e non con il Virgilio. Può darsi che ciò sia vero. Ma, anche se si è persuasi, come sono persuaso io, che nel mondo attuale l'arte non occupi più  quel posto d'onore che le è spettato in altri tempi tuttavia sarebbe stato quasi un gesto ridicolo, un patetico 'di troppo' se avessi esibito e convalidato una simile valutazione con lo spettacoloso auto-da-fe' di un rogo di libri, naturalmente pubblico. Avrebbe avuto l'aria di una originalità a tutti i costi. Ho rinunciato a un vero compimento artistico del libro perché in qust'epoca d'orrore non avevo il diritto di dedicare un altro paio d'anni a un'opera che a ogni passo si sarebbe fatta sempre più esoterica. Credo con ciò di aver definitivamente concluso la mia carriera letteraria. Mi sembra che per la mia conoscenza non potevo fare di più . E non è stata proprio una decisione tanto fa