Politik | Gastkommentar

Brucino le bandiere se sono oppressive

L’avvocato Canestrini interviene sul caso Zeller e la fascia tricolore a difesa della neosindaca di Merano: “Rifiutare l’italianità imposta non significa rinnegare la convivenza”.
Dario Dal Medico, Katharina Zeller
Foto: Tgr Rai Alto Adige
  • C’è qualcosa di profondamente contraddittorio nel modo in cui trattiamo i simboli. La bandiera, per esempio. Dovrebbe rappresentare un’idea di unità, di appartenenza, di condivisione. E invece, troppo spesso, è servita e serve per dividere. Per marcare differenze. Per disegnare confini. Per dichiarare guerre. Per giustificare l’odio verso chi è considerato "altro".   Ma l'enfatizzazione del concetto di nazione è l'anticamera del nazionalismo, cioè quel "atteggiamento complesso di comportamenti ideologici e politici che, identificando il concetto di nazione con quello di patria e deformando ed esasperando il naturale sentimento morale del patriottismo e il principio politico di nazionalità, considera la nazione come il supremo valore etico-politico ed etico-culturale e fa del prestigio della nazione il principio supremo e totalizzante a cui deve ispirarsi l'azione politica" (Grande dizionario della lingua italiana, Torino 1981). Del resto, i sostenitori del nazionalismo, che si organizzarono nell'Associazione Nazionalista Italiana, nata dopo un congresso tenutosi a Firenze nel 1910, aderirono poi al fascismo. I nazionalismi, che si nutrono di simboli come appunto la bandiera, sono stati – e lo sono ancora – causa di conflitto. Sono stati e sono tutt’ora lo sfondo ideologico (e fisico) di invasioni, oppressioni, epurazioni, occupazioni. In nome di una bandiera si è marciato, si è invaso, si è ucciso. E anche in questi giorni si marcia, si invade, e si uccide, anche vicinissimo a noi. 

     

    Qui, il tricolore è stato un segno di conquista, di imposizione, di cancellazione identitaria. 

     

    Eppure continuiamo a sventolare quei colori come se fossero incontestabili, come se non potessero mai essere messi in discussione.  E guai a criticarli: chi lo fa rischia il processo, mediatico ma anche penale.  Accade in Italia, dove esiste ancora – nel nostro codice penale – un reato che punisce chi vilipende la bandiera nazionale. Una norma che sa di altri tempi, di regimi che avevano paura del dissenso e che avevano bisogno di mostrare forza attraverso il culto dei propri simboli. Proprio per chi vive in terre di confine come il Sudtirolo l’uso della bandiera, e in generale dei simboli nazionalistici italiani, ha assunto nel corso del Novecento un significato particolarmente doloroso. Qui, il tricolore è stato un segno di conquista, di imposizione, di cancellazione identitaria: come non ricordare la rivendicazione - evidentemente ancora attuale - sul monumento bolzanino alla cosiddetta vittoria “Hinc patriae fines, siste signa. Hinc ceteros excolvimvs lingva legibvs artibvs”? La esibizione forzata della bandiera  – insieme all’imposizione della lingua italiana, alla cancellazione dei toponimi tedeschi, alla repressione culturale e politica – è stata parte integrante di una strategia di assimilazione violenta, inaugurata con la marcia fascista su Bolzano nel 1922 con rimozione del sindaco Julius Perathoner e purtroppo proseguita, sotto forme meno esplicite ma altrettanto oppressive, anche nella Repubblica nata dopo il 1946. Non si pensò, ad esempio,  di rimediare alla “pulizia linguistica” di Ettore Tolomei, scegliendo di non rinnegare il progetto ideologico che la accompagnò, cioè negare l’esistenza stessa della cultura locale, sostituendola con un’italianità artificiale e colonizzatrice. Rattrista – e fornisce linfa vitale agli opposti estremismi– che anche nei decenni dopo la fine della guerra, e ancora oggi, in nome dell’unità nazionale, lo Stato italiano difenda la validità dei toponimi “inventati”. La disputa sulla segnaletica bilingue o trilingue è solo l’ultimo capitolo di una storia lunga e, per molti, ancora dolorosa. In questo contesto, c’è chi ritiene che criticare i simboli imposti sia semplicemente un atto di autodifesa culturale, mentre la difesa della propria cultura e della propria identità da parte dei sudtirolesi di lingua tedesca è stata spesso bollata come "anti-italiana" (o terroristica), come se chiedere rispetto per la propria storia fosse un affronto allo Stato. 

  • Il momento in cui Dario Dal Medico, ex Sindaco, mette la fascia tricolore a Katharina Zeller. Foto: SALTO
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    Proprio per chi vive in terre di confine come il Sudtirolo l’uso della bandiera ha assunto nel corso del Novecento un significato particolarmente doloroso.

     

    È qui che il paradosso si fa evidente: un simbolo che dovrebbe rappresentare l’unità, diventa il vessillo della divisione. Un emblema che dovrebbe incarnare la libertà, viene percepito come strumento di oppressione.

    Ma in Sudtirolo rifiutare l’italianità imposta non significa rinnegare la convivenza, ma opporsi a una narrazione che per decenni ha usato la bandiera come arma, non come ponte. Non a caso, ancora oggi, molte delle ferite aperte da quell’epoca non sono state curate. 

    E non è un caso che proprio chi contesta quei simboli venga ancora processato per vilipendio. Come se dissentire da un’identità nazionale imposta fosse un crimine, e non un diritto: qualcuno ricorderà la indagine con faticosa archiviazione del 2006 del Tribunale di Bolzano per una opera d’arte considerata vilipendiosa nei confronti della nazione italiana, cioè la riproduzione dell’Inno di Mameli a ritmo di sciacquone al Museion. Anche i manifesti della Suedtiroler Freiheit, che raffiguravano la bandiera italiana spazzata via per fare posto a quella austriaca, la Corte in due pronunce del 2018 e del 2021 ha ritenuto sussistente il reato, nonostante la assodi Cassazione ha ritenuto sussistere il vilipendio. 

  • Ma cosa resta, in tutto questo, della libertà di espressione? L’articolo 21 della Costituzione italiana definisce la libertà di manifestare il pensiero come uno dei diritti fondamentali. E lo stesso fa l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte di Strasburgo, fin dalla celebre sentenza Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, ha chiarito che la libertà di espressione protegge anche le idee che “urtano, offendono o inquietano”. Non è una concessione del potere: è una condizione della democrazia. E proprio per questo deve essere garantita anche a chi sfida i simboli, anche a chi disturba.

    Il paradosso è evidente: in nome della tutela di un simbolo, si finisce per comprimere proprio quella libertà che quel simbolo dovrebbe rappresentare. Si colpisce la critica politica, si penalizza la dissidenza, si imbavaglia la protesta. Come se la democrazia fosse fragile al punto da non poter sopportare uno straccio bruciato o una provocazione grafica.

    Eppure, lo stesso simbolo del potere può diventare strumento di democrazia solo se condiviso, senza invocare improbabili “unità millenaria della stirpe italica” o una presunta sacralità degli stessi. Come accade per la fascia tricolore: un simbolo istituzionale previsto dal Testo unico degli enti locali, riservato ai sindaci per le cerimonie ufficiali, da portare a tracolla. Ma anche qui, l’enfasi regolamentare rischia di trasformare il simbolo in feticcio. Quando è la forma a contare più della sostanza, si smarrisce il significato originario dell’istituzione democratica.

     

    Quando è la forma a contare più della sostanza, si smarrisce il significato originario dell’istituzione democratica.

     

    Una società democratica dovrebbe invece saper accettare anche le critiche più dure, anche quelle espresse in modo provocatorio. La libertà di parola non serve a proteggere il consenso, ma il dissenso. E ogni volta che si punisce una forma espressiva perché urta il sentimento nazionale, si compie un passo verso quella logica autoritaria che ieri ha portato alle leggi razziali ed ai fascismi, e oggi alimenta il populismo identitario.

    La Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Texas v. Johnson (1989), ha stabilito che bruciare la bandiera americana — pur essendo un gesto altamente offensivo per molti — è protetto dal Primo Emendamento della Costituzione, in quanto forma di espressione simbolica. Secondo la Corte, *"se esiste un principio fondamentale alla base del Primo Emendamento, è che il governo non può vietare l’espressione di un’idea solo perché la società la trova offensiva o sgradevole."* Anzi, la decisione sottolinea che la forza della democrazia risiede proprio nella capacità di tollerare anche le forme più controverse di dissenso: "Il posto giustamente caro che la bandiera occupa nella nostra comunità sarà rafforzato, non indebolito, dalla nostra decisione odierna. La nostra sentenza riafferma i principi di libertà e inclusività che la bandiera rappresenta al meglio, e la convinzione che la nostra tolleranza per critiche come quella di Johnson sia segno e fonte della nostra forza."

    La Corte Suprema ha difeso il diritto a contestare anche i simboli più sacri, riaffermando che è proprio nella libertà di dissentire che si manifesta la vera forza di una democrazia costituzionale.

    Se c’è una bandiera che vale la pena sventolare oggi, è quella arcobaleno. Non perché rappresenti uno Stato, ma perché rappresenta un ideale. Non perché chiede fedeltà a un'identità chiusa, ma perché invita a costruire una comunità aperta, inclusiva, libera. L’ideale di una umanità condivisa, non divisa. Dove i confini non separano, ma si attraversano. Dove le differenze non sono minacce, ma ricchezze. Contro l’odio e l’esclusione. Per la pace, la dignità e l’uguaglianza. 

    Se il tricolore serve solo a proteggere sé stesso, allora ha perso ogni significato. Se non regge il peso di una critica, di una contestazione, di un gesto provocatorio, allora è solo stoffa cucita attorno al potere. Ma se invece sappiamo accettare che anche i simboli possano essere messi in discussione — perché è proprio così che si mettono alla prova le democrazie — allora quel simbolo torna a vivere. Non come imposizione, ma come scelta. Non come arma, ma come ponte. La libertà non si difende mettendo a tacere chi dissente. Si difende ascoltandolo. Anche quando brucia.

  • Nicola Canestrini

    Avvocato, dal 2001 è titolare di canestriniLex. Canestrini difende diritti fuori e dentro le aule con predilezione per la cooperazione penale internazionale; già professore a contratto all’Università di Ferrara, è ammesso ad esercitare quale difensore anche davanti alla Corte penale Internazionale dell’Aja.

    Membro della Camera penale di Trento, che ha anche presieduto, ha fondato e coordina l’osservatorio “avvocati minacciati | endangered lawyers” dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che si occupa di monitorare e promuovere azioni a favore di avvocati minacciati nel mondo a causa della loro funzione difensiva; è osservatore internazionale in processi contro human rights defenders.

    Foto: Othmar Seehauser