Non è troppo tardi
Poche parole la precedono: “Malalai!”, “Yes, I’coming.” È piccola, mi dico. Sì, piccola e così giovane, potrebbe essere mia sorella. “Volete fare un’intervista, vero?”, ci chiede subito dopo averci dato la mano. Ci indica il divano.
Sarebbero così tante le domande da farle, avrei voglia di chiederle anche le cose più banali, tipo cosa sogna di notte, cosa pensa quando vede noi occidentali in questo mondo occidentale. Cosa mangia a colazione? E in che lingua pensa? E il velo, dove tiene il velo? Non si sente mai sola? E come fa a organizzare la sua vita da fuggitiva, senza mai mollare di fronte alla paura di morire?
Malalai invece parte subito, non ha spazio nei suoi pensieri per le piccole chiacchiere. Inizia a parlare del suo Afghanistan, degli Americani che lo usano come campo di prova per le loro tecniche di guerra. Parla di tante guerre, quella Russo-Afghana dal ’79 all’`89, quella civile subito dopo; del regime talebano dal ’96 al 2001 e dei signori della guerra, che ora sono lì, a tenere il governo fantoccio, quando invece sono loro gli aguzzini. Hekmatiar è uno di loro, fino a poco fa era sulla black-list dei criminali di guerra, ora è lì a negoziare al tavolo di pace (www.ansa.it). “Perché non dite niente voi?”, ci chiede energicamente. “Dite al vostro governo di ritirare le truppe, non dire nulla è acconsentire, siete tutti responsabili.” Parla di geopolitica, di posizioni strategiche, di basi militari, di invasione. Parla di invasione e di un paese rubato. “Noi siamo la war-generation”, la generazione della guerra, avevo quattro giorni quando i sovietici invasero l’Afghanistan. Non ho mai conosciuto la pace nel mio paese. La donna lì, vale meno di nulla. Hanno avvelenato la mensa di una scuola femminile! La guerra al terrorismo è una bella scusa per loro, gli americani, per continuare i loro giochi politici. Dicono: “abbiamo lanciato la bomba madre per combattere l’ISIS”, ma l’ISIS non è altro che un’altra buona scusa. A morire sono loro, i civili, donne, bambini, innocenti.”
Faccio fatica a seguirla. È veloce e i suoi frammenti di storie così forti. Chiedo perché la posizione dell’Afghanistan è così strategica. Mi sento stupida, ma voglio sentire la sua visione dei fatti. Dice che da lì si controlla tutto, la Cina soprattutto, ma è anche un simbolo forte contro la potenza russa. E poi c’è il gasdotto trans-afghano… Vorrei approfondire, ma mi fermo ad ascoltare ancora pezzi di storie incredibili, che Malalai, con determinazione e una velocità di pensiero incredibile, racconta. Quando Barbara, la reporter che mi accompagna, le chiede qual è la sua ispirazione, per un attimo le sue tante parole si fermano. La guarda; “My inspiration?”, chiede. “Sì, perché fai ciò che fai?“, “I want to tell the truth.”, dice, voglio raccontare la verità.
Poco dopo, durante la conferenza a Belluno, dirà che è consapevole che prima o poi riusciranno a ucciderla, ma fino ad allora non smetterà mai di dire la verità, di raccontare come davvero stanno andando e sono andate le cose. È proprio per questo che nel 2004 l’hanno espulsa dal governo afghano, per aver avuto il coraggio di denunciare apertamente, davanti a tutti loro, la presenza nel parlamento di signori della guerra. La democrazia non può nascere da un’invasione militare, la democrazia deve venire da dentro il paese, deve prosperare tra la popolazione per riuscire a essere vera. “Non è troppo tardi. Nessuna nazione può essere liberata da un’altra nazione, non mi stancherò mai di dirlo. Per adesso però, c’è solo un modo per fare opposizione, l’attivismo underground.”
Prima di andare via voglio salutarla, la abbraccio fortemente e ancora vorrei dirle così tante cose, ma con le lacrime agli occhi riesco a sussurrargliene solo una: “you are a very strong woman.”
Per sapere di più su Malalai Joya: www.malalaijoya.com