Frammenti di storia urbanistica bolzanina

Giorgio Pasquali, uno degli uomini più capaci e avveduti tra quelli che hanno calcato in tempi recenti la scena politica altoatesina, usava sempre dire che in questa terra ogni problema assomma alla propria naturale complessità anche quella dovuta alla questione etnica.
Non c'è esempio migliore per dimostrare l'assennatezza di questo pensiero di quello costituito dallo sviluppo urbanistico di Bolzano nell'ultimo secolo.
La colpa, ovviamente, è, come sempre, del fascismo. Anche se è abbastanza ovvio che la città, nata e vissuta per secoli nell'angusto vertice della vasta conca, si sarebbe comunque espansa, nel novecento, verso sud e verso ovest, resta il fatto che quell'espansione è stata vissuta come un trauma indimenticabile perché segnata dalla volontà del regime di cambiare, con la costruzione della "città italiana" il carattere etnico e linguistico dell'intera provincia.
Le ciminiere al posto dei vigneti dell'Agruzzo, le casette Semirurali e i palazzi in stile razionalista posti a segnare dunque il verso di un processo di italianizzazione che è proseguito ben oltre la data fatidica del 25 luglio 1943 e che anzi si è sviluppato forse in maniera completa solo nel secondo dopoguerra. E' ancora la Bolzano disegnata da Marcello Piacentini quella che, terminato il conflitto, si avvia con ondate successive di immigrazione a toccare il traguardo dei centomila abitanti. È la Bolzano sulla quale, nel novembre del 1957, s'indirizza l'invettiva che il giovane Obmann della SVP Silvius Magnago lancia dalle rovine di Castelfirmiano.
"Sappiamo a sufficienza come funzionano le cose oggi a Bolzano. Si costruiscono centinaia di case e vengono assegnate a coloro che vivono nelle grotte e nelle baracche. Solo che questi baraccati vengono immediatamente sostituiti da nuovi immigrati. Ed anche per questi devono essere costruite nuove case. E così avanti senza fine. E questo è il grande inganno dell'edilizia sociale a Bolzano".
È solo l'inizio di un lungo e durissimo confronto che trova un punto di accordo nel nuovo statuto di autonomia, con la concessione alla Provincia di tutte le principali competenze utili a regolare lo sviluppo urbanistico futuro della città e soprattutto la realizzazione e l'assegnazione delle case popolari.
Sono anni difficili per la città. A Bolzano sono aumentati gli abitanti ,sono state costruite in tutta fretta molte case, si sono riempiti i vuoti lasciati dalla prima espansione di epoca fascista, ma i servizi sono rimasti sostanzialmente quelli di epoca austroungarica con qualche integrazione realizzata nel ventennio. Le scuole, ad esempio, sono pochissime e la pratica dei doppi e dei tripli turni è normale, come possono ricordare tutti coloro che hanno scaldato i banchi sino almeno agli anni 70.
Il cambio radicale di direzione politica passa, e non può essere altrimenti, per una fase di stallo totale. Per i bolzanini di lingua italiana la figura da demonizzare, in quegli anni, è quella dell'assessore provinciale all'urbanistica Alfons Benedikter, considerato il diabolico ideatore di un piano teso a strangolare la città e a costringerne gli abitanti all'emigrazione coatta. Uno dei campi di battaglia sui quali più aspramente ci si scontra è il piano regolatore predisposto all'inizio degli anni 70 dagli urbanisti Piccinato e Winkler e nel disegno del quale si sente già nettamente, un esempio è quello del famoso "cuneo verde" a ovest del quartiere di Gries, la mano greve dei nuovi detentori del potere. Sono gli anni forse più inquieti, quelli nei quali ai problemi squisitamente politici si sommano tutte le difficoltà dovute alla lunga stasi nella realizzazione dei nuovi quartieri di abitazione e dei relativi servizi. Pochi ancora ricordano la traumatica occupazione da parte di decine di famiglie di senza casa delle vecchie casette Semirurali, già sgomberate dai vecchi abitanti e pronte per essere definitivamente demolite.
Poi, con estrema lentezza, le cose iniziano a migliorare. I nuovi alloggi di edilizia agevolata, definitivamente interrotto ormai il perverso meccanismo dell'immigrazione denunciato nel '57 da Magnago, vengono assegnati tenendo conto non solo dell'appartenenza etnica ma anche del bisogno. Tagli del nastro a ripetizione anche per scuole ed altri edifici di servizio.
Parrebbe arrivato il momento di celebrare questo equilibrio finalmente ritrovato levando alla città e al suo governo il peso di quel "fattore etnico" postulato da Giorgio Pasquali, di restituire ai bolzanini il diritto di disegnare il futuro della città secondo il proprio gusto e le proprie esigenze. Avviene, invece, quasi il contrario.
I reggitori di una provincia che sta crescendo tumultuosamente in forza politica e in disponibilità finanziaria non intendono dover venire a patti, né punto né poco, con gli amministratori cittadini e forti delle loro competenze e dei loro denari avviano, senza consultare nessuno o quasi, una serie di operazioni destinate, in qualche modo, a cambiare la faccia del capoluogo.
La principale è quella che riguarda la dislocazione dei nuovi uffici provinciali.
Quando inizia la fase espansiva dovuta all'entrata in vigore della seconda autonomia, la Provincia è un ente molto piccolo che occupa poche stanze, quasi tutte concentrate attorno al polo di via Crispi. Le esigenze però aumentano con rapidità impressionante e una grossa parte dei nuovi uffici viene ad allinearsi lungo quella sorta di "tridente" costituito da tre strade parallele: corso Italia al centro, via Amba Alagi e via Duca d'Aosta ai lati. Poi gli edifici che espongono all'entrata il cartello con l'aquila rossa emblema della provincia vengono sparsi a pioggia in tutto il resto della città in un processo di moltiplicazione che sembra non avere mai fine.
Non esiste, a memoria d'uomo e di urbanista, un momento nel quale tra Comune e provincia ci si confrontino sul presente e sul futuro di questa colossale operazione urbanistica, sul suo impatto, ad esempio, sul traffico cittadino e sui trasporti pubblici. Gli uffici provinciali vengono aperti, vengono spostati, vengono chiusi. Ogni giorno attraggono molti addetti o visitatori da altre zone della provincia, ma l'ipotesi di dislocare una gran parte dei servizi al di fuori della città vera e propria, nella zona di Bolzano sud ad esempio, non viene mai nemmeno discussa o presa in considerazione.
La storia ha regalato alla città di Bolzano una curiosa e ingrata forma. Un tronco di cono piazzato tra lo sbocco dei due valli, quella Sarentina e quella d'Isarco, con la montagna alle spalle e la grande conca alluvionale di fronte. Accade così che il centro storico si trovi nella parte più stretta del cono e che la città non abbia potuto crescere per cerchi concentrici, come avviene normalmente, ma se si sia allargata per ondate successive verso sud e verso ovest. Questo comporta grossi problemi soprattutto per quanto riguarda la mobilità interna. Non per niente i bolzanini doc usano dire "vado in città" mentre magari si trovano in piazza Adriano, che dall'abitato è il vero baricentro e vogliono recarsi all'ombra del Duomo.
Ad acuire il problema si aggiunge la scelta, presa sempre senza nessuna forma di trattativa urbanistica, di accentrare negli ultimi anni tutti gli uffici possibili e immaginabili proprio nel centro storico e alle sue spalle. Il famoso "tridente" di corso Italia è stato quasi completamente svuotato e ora migliaia e migliaia di metri cubi di uffici deserti attendono di essere in qualche modo riutilizzati. Il fatto che, per la gran parte, appartengano a un unico grande e potente costruttore edile, non rende certo più facile la soluzione del problema. Gli uffici provinciali sono migrati, come del resto le sedi delle principali associazioni di categoria, ben oltre il centro, nel piccolo e isolatissimo rione dei Piani, che, dopo essere stato liquidato per decenni come un invivibile "Siberia", pare divenuto d'un tratto l'oggetto privilegiato del desiderio per chiunque si affaccendi ai piani alti del potere.
Non è, quello degli uffici provinciali, l'unico esempio di come la mano pesante dell'amministrazione provinciale abbia cambiato d'arbitrio il disegno della città, negli ultimi decenni.
Si pensi alla vicenda del vecchio ospedale, pregevolissima struttura d'epoca absburgica, che, con una programmazione coerente e lungimirante, sarebbe potuto divenire un polo culturale e museale capace di legare assieme molte iniziative. La giunta provinciale ne ha deciso, d'autorità assoluta, la demolizione per sostituirlo con il "Moloch" dell'Università. Altri inserimenti di forza sono stati quelli del Museion, del Museo Archeologico e ora, se ci saranno i denari, del colosso bibliotecario. Si tratta, si badi bene, di realizzazioni in sé più che pregevoli, dalle quali la città ha tratto indubbiamente un gran giovamento.
Il modo con cui sono state calate nel tessuto cittadino è quello che però ha istituito ormai una prassi secondo la quale, sulla base anche di norme recentemente approvate, la provincia può disporre come vuole e come crede della città capoluogo ogni volta che a suo giudizio (o arbitrio?) vi sia in ballo un interesse di carattere provinciale.
Arriviamo così ai giorni nostri e alla "querelle" che vede schierati su opposti fronti i fautori del progetto dell'invasore Benko, cui l'appellativo immediatamente concesso di "Tycoon" conferisce un che di sinistro, e quelli, nostrani, animati a loro dire solo dal nobile intento di tutelare piccolo commercio e le aiuole, sino a ieri ignorate, dei giardini della stazione. La guerra è in corso, ma, chiunque ne esca vincitore, sarà confermato che ormai la città di Bolzano cambia il suo volto quasi solo sulla base di input esterni.
Varrebbe dunque la pena, visto che nei prossimi mesi si realizzerà un interessante intreccio tra il dibattito preelettorale in vista delle elezioni comunali e quello per la riscrittura dello statuto di autonomia, di mettere tra gli argomenti all'ordine del giorno di quest'ultimo anche quello del ruolo della città capoluogo, diverso da quello di tutti gli altri 115 comuni altoatesini. Consegnati alla storia il ricordo della violenza urbanistica fascista e del dirigismo provinciale, sarebbe forse ora di riconoscere a Bolzano, con norme incardinate nello statuto stesso, il sacrosanto diritto a decidere del proprio futuro, sulla base di mezzi economici adeguati, non dipendenti sempre dalla benevolenza del presidente o dell'assessore di turno.
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