L'autonomia? Un affare

Bisogna sempre ricordare, innanzitutto, che l'autonomia, nel suo nascere, non trovò certo un'accoglienza calorosa da parte di coloro cui era destinata. I sudtirolesi, nel 1945, avevano fortemente creduto di poter ricevere, come risarcimento per i torti subiti durante il fascismo, la possibilità di esercitare il diritto all'autodecisione e tornare così nel seno della madre patria Austria. La delusione arrivata con la decisione delle potenze vincitrici di non modificare il confine del Brennero fu tremenda e la promessa dell'autonomia contenuta nell'accordo de Gasperi Gruber fu vista generalmente come un ripiego assai poco soddisfacente. Una parte della popolazione di lingua tedesca e dei suoi rappresentanti politici l'accettò, perché l'alternativa sarebbe stata quella di restare senza nessun tipo di tutela. Un'altra parte, tutt'altro che marginale, considerò allora che accettare l'autonomia significasse una rinuncia più o meno definitiva al sogno della Selbstbestimmung. Questa è una corrente di pensiero e di azione politica che scorre come un fiume nella storia altoatesina degli ultimi settant'anni. Un fiume che si inabissa e resta sotterraneo nei momenti in cui la prima e la seconda autonomia sembrano funzionare e che riemerge impetuoso nelle fasi di crisi e di difficoltà. L'autonomia fu subita "obtorto collo" anche dalla popolazione italiana che vide messo in pericolo quel patrimonio di privilegi e di vantaggi conquistato nelle fasi dell'immigrazione, durante il fascismo e nel secondo dopoguerra. È un retaggio che dura sino ai giorni nostri, in cui in pochi ormai si dicono apertamente anti autonomisti, ma nei quali le vecchie diffidenze e gli antichi rancori pesano non poco sugli atteggiamenti individuali e su certe posizioni politiche.
Dal primo statuto al 'pacchetto'
Un'autonomia-cenerentola dunque quella che va ad affrontare, dal 1948 in poi, con il primo statuto, un severo collaudo. Si sa come andarono le cose: un fallimento totale, legato soprattutto all'affermarsi, a livello nazionale, di un centralismo sempre più rigido e, a livello locale, dell'incapacità della classe politica dirigente trentina di gestire un ruolo di mediazione generosa e disinteressata nel conflitto etnico risorgente in provincia di Bolzano. Ci si può chiedere se, anche gestita al meglio, la prima autonomia avrebbe mai potuto soddisfare l'impeto verso l'autogoverno totale che cresceva in Alto Adige. Certo è che la grande crisi degli anni '50 e '60 vede risorgere prepotente, sia sul piano politico che su quello della lotta armata il rifiuto dell'autonomia come strumento di tutela delle minoranze tedesca e ladina e la battaglia per il distacco da Roma. Solo il carisma di Silvius Magnago, che riesce a sostituire il concetto di "Los von Rom" con quello solido e pragmatico, di "Los von Trient", riesce a ricondurre la vicenda sui binari di una trattativa politica che porta, all'alba degli anni 70, alla nascita del secondo statuto e poi alla sua lentissima ventennale attuazione.
È un'autonomia, questa, che ha come obiettivi principali quello di realizzare una tutela il più possibile completa delle minoranze tedesca e ladina dal punto di vista politico, culturale, economico e quello di risarcirle nel modo migliore dei danni e degli abusi subiti nei decenni precedenti. È un'autonomia che non si pone il problema di gestire in qualche modo la convivenza tra i gruppi. Gli italiani, considerati in precedenza come un pericolo incombente (la famosa "Todesmarsch"), restano confinati sullo sfondo del panorama politico, semplici comparse in un processo di cambiamento totale dell'assetto politico locale. Paradossalmente, però, quelli dell'era Magnago sono ancora gli anni nei quali alla rappresentanza politica italiana vengono concessi spazi ampi di competenza e di azione. Basti pensare ai progetti per la realizzazione dei parchi naturali, del sistema integrato di trasporti realizzati dall'assessore DC Giorgio Pasquali.
Questa prima fase termina fra il 1989 e il 1992 con l'uscita di scena della vecchia classe dirigente, Silvius Magnago in testa, e la chiusura della lunga fase di attuazione del "pacchetto".
L'era Durnwalder
Il periodo che inizia allora e che dura da un quarto di secolo è quello di cui noi oggi stiamo vivendo probabilmente la fase di crisi terminale. Questa, che potremmo definire "era Durnwalder", è caratterizzata da alcuni elementi molto precisi. Ferma restando la missione di tutela e di risarcimento dell'autonomia, essa diviene, con tutte le competenze conquistate nella fase di attuazione e con quelle che vengono ad aggiungersi successivamente, in base alla cosiddetta "autonomia dinamica", una forma di gestione del potere sempre più articolata e complessa. Un elemento chiave è costituito dalla crescente disponibilità di risorse finanziarie. Il vecchio sistema, che in qualche modo commisurava l'entità dei trasferimenti di denaro da Roma alle necessità conclamate dell'autogoverno locale, viene abbandonato e al suo posto viene progressivamente introdotto il sistema che aggancia i trasferimenti finanziari all'entità delle imposte pagate in provincia. Questo permette di poter contare su una quantità di finanziamenti che supera largamente le esigenze immediate e che permette di dar corpo senza difficoltà ad ogni tipo di realizzazione. Sono gli anni nei quali l'apparato pubblico cresce apparentemente senza nessun limite sia dal punto di vista quantitativo che sotto il profilo dei trattamenti economici al personale. Sono gli anni in cui decollano i lavori pubblici, dalle realizzazioni sparse a pioggia in ognuno dei comuni della periferia altoatesina, ai grandi progetti di respiro provinciale. Sono gli anni in cui la sovrabbondante disponibilità finanziaria permette di avviare con Roma le trattative per assumere sempre nuove competenze (si pensi, solo per fare un esempio, alla gestione di tutto il personale della scuola). Sono gli anni nei quali nessun progetto o nessuna richiesta sembrano di per sé talmente esagerati da non poter essere presi in adeguata considerazione.
Tutto questo si traduce in un nuovo concetto dell'autonomia che si aggiunge senza cancellarli a quelli precedenti. L'autonomia è un colossale affare, un sinonimo di benessere crescente, di provvidenze di ogni tipo per i cittadini, per le istituzioni locali, per ogni forma di struttura organizzata. L'autonomia è ricchezza collettiva, grazie, si sottolinea, al buon governo e alla sagacia degli amministratori.
È un concetto questo che, negli ultimi 25 anni, viene ripetuto come un mantra in ogni occasione e a tutti i livelli. È un concetto instillato nella mente di un'intera generazione di altoatesini/sudtirolesi. Tutti coloro che hanno meno di quarant'anni sono nati o cresciuti in quest'epoca, in un Alto Adige trasformato dall'autonomia nel paese di Bengodi.
Gli italiani e l'autonomia
C'è spazio, in questa sorta di ideologia della cuccagna, anche per un concetto che riguarda direttamente gli italiani che vivono in Alto Adige. Ad essi, con un tono che varia tra lo stupito e l'irritato, si chiede come possano ancora diffidare dell'autonomia quando, grazie ad essa, possono godere di vantaggi sconosciuti agli altri abitanti della penisola. Il tutto, sorvolando elegantemente sulla riflessione secondo la quale, pur essendo magnifico il potersi sedere ad una tavola riccamente imbandita, qualche volta si vorrebbe metter voce in capitolo nella scelta del menù.
Accade invece, proprio in questi anni, che gli spazi politici e amministrativi sino ad allora gestiti dal gruppo italiano vengano drasticamente ridotti a tutti i livelli, sino ad arrivare alla situazione esistente ai giorni nostri nella quale, in giunta provinciale ad esempio, le competenze attribuite all'unico rappresentante italiano si sono ristrette quasi del tutto alla "riserva indiana" della scuola e della cultura del gruppo stesso, un po' come la pelle di zigrino del romanzo di Balzac.
L'inizio della crisi
Anche questo fenomeno, peraltro, va inquadrato in un progressivo accentramento di tutti i poteri e di tutte le competenze, dapprima nell'organo di governo provinciale e poi, sempre più marcatamente nella figura del presidente Luis Durnwalder. È un mutamento che tocca ad esempio l'autonomia dei comuni, in particolare quella del capoluogo Bolzano, che viene sostanzialmente espropriato della possibilità di determinare le scelte urbanistiche sul proprio territorio, con la giustificazione che molti interventi hanno, come è logico che sia, un interesse sovracomunale. Il fenomeno riguarda anche la giunta provinciale con l'abbandono della collegialità praticata ai tempi di Silvius Magnago, i rapporti tra potere provinciale e i vertici SVP ed infine, con momenti di acuta tensione, anche le sinergie con la rappresentanza parlamentare a Roma, da sempre coinvolta nei rapporti con il governo e poi progressivamente scavalcata dall'inarrestabile iniziativa del Presidente.
Questo cambiamento contiene in sé uno dei motivi che originano la crisi del modello autonomistico che stiamo vivendo in questi anni e dalla quale non sembra esservi per ora una via d'uscita. Il consolidarsi di uno schema di governo sempre più marcatamente verticistico ha allontanato progressivamente tutte le forze capaci e interessate a gestire la cosa pubblica in maniera più corale. Un fattore che si mischia a quello di un progressivo rinchiudersi in se stessa della comunità altoatesina, ubriacata dalla disponibilità economica apparentemente inesauribile e convinta di trovare, nella contemplazione del proprio ombelico, tutte le risorse umane possibili e immaginabili con cui costruire il proprio presente e il proprio futuro. I contributi esterni vengono inesorabilmente emarginati, se non direttamente esclusi.
L'utilizzo in chiave protezionistica di requisiti come gli esami per il bilinguismo, nati per tutt'altra bisogna, inizia a far sentire i propri effetti negativi con una progressiva incapacità di tenere il passo con la realtà esterna. La gravissima crisi congiunturale degli ultimi anni, dalla quale non pochi avevano pensato che l'Alto Adige potesse restare miracolosamente immune, ha introdotto elementi di incertezza sul piano interno con il cedimento di settori come quello dell'edilizia, e, all'esterno, ha accentuato in maniera notevole il giudizio pesantemente negativo sulle autonomie speciali come quella altoatesina, considerate fonte di dissipazione e di spreco.
Nel giro di un decennio l'immagine di "autonomia modello" che i governanti altoatesini erano abituati a sfoggiare come un costoso fiore da apporre all'occhiello della giacca si è completamente frantumata. L'invidia delle regioni vicine costrette a fare i conti con un differenziale di spesa ormai stratosferico si è nutrita anche dell'arroganza con la quale le critiche sono state respinte al mittente, senza nemmeno il tentativo di cercare un dialogo. Gli ultimi anni di queste esperienze autonomistica sono passati nella rincorsa continua di un accordo con Roma che metta le risorse finanziarie della provincia al riparo da ogni possibile futuro taglio. Una sorta di quadratura del cerchio che è resa impossibile, probabilmente, più dal maturare di eventi imponderabili che dalla cattiva volontà delle parti contraenti.
Gli pasticci continuano
A rendere l'equilibrio fragile, poi, l'incrinarsi dello specchio nel quale il modello Sudtirolo ha contemplato per decenni la propria pretesa superiorità di governo rispetto al resto d'Italia. Il caso che viene subito alla mente è quello dello scandalo SEL, con l'accumularsi sul tavolo del procuratore della Repubblica di Bolzano dei fascicoli che raccontano la storia di un progetto nato e concepito per condurre sotto il controllo immediato e diretto della giunta provinciale tutte le grandi strutture di produzione idroelettrica della provincia di Bolzano e di assegnare, nel contempo, allo stesso organo di governo il ruolo di arbitro nel delicato passaggio dell'assegnazione delle concessioni per le stesse centrali. È finita come doveva finire, con un grande e costosissimo pasticcio, ma non è che l'esempio più eclatante di una gestione politica che non sa troppo spesso utilizzare altro strumento per rapportarsi ad un problema che non quello di comprare, di possedere, di gestire direttamente, senza alcun controllo, tutto ciò che si trova di fronte, in una bulimia nel possesso che evoca alla mente certe pagine del Mastro don Gesualdo di Verga.
La crisi dell'autonomia-affare produce inevitabili effetti. Nel momento in cui essa non garantisce più tutto a tutti è il concetto stesso che viene messo in discussione. La rivolta delle periferie contro l'ipotesi di smantellamento, sia pur parziale, delle strutture sanitarie, non si ferma alla contestazione di un metodo ma diventa rifiuto dell'intero sistema e torna alla luce, dalle profondità carsiche, quel fiume antico che trascina con sé antiche diffidenze e nuove fantasie di secessione.
Il risultato è, dopo trentacinque anni di nuova autonomia, quello disegnato dal voto alle ultime elezioni. Un sudtirolese su tre ha votato per partiti che sono chiaramente contro questa autonomia e per la fuoriuscita dallo Stato italiano. Per quel che riguarda l'elettorato di lingua italiana, il fortissimo astensionismo e la disgregazione dei partiti della destra antiautonomista mascherano a malapena un senso di estraneità a questa realtà di autogoverno locale che, se non assume più i toni esagitati di un tempo, non è per questo meno presente e pericoloso. Un bel risultato davvero, che le successive polemiche sulle indennità dei politici provinciali non hanno certo contribuito a modificare.
Autonomia della convivenza
Autonomia di tutela e risarcimento e autonomia come affare da non perdere. L'affermarsi di questi due modelli ha lasciato ben poco spazio al terzo, quello di un'autonomia come semplice strumento per la costruzione di una convivenza vera tra i gruppi che abitano questa terra ai quali doveva e dovrebbe esser lasciata pari dignità nella sua gestione e nell'orientare il suo sviluppo. Oggi il chiacchiericcio insistente sul terzo statuto non lascia intravedere nemmeno per il futuro un'opzione di questo genere. Lo schema resta quello di sempre, con una Provincia accumulatrice seriale di competenze, chiusa totalmente in se stessa, incapace di cogliere i segnali di cambiamento per cui certe tematiche, quella dell'organizzazione di una sanità moderna tanto per fare un esempio, non possono più essere affrontate risolte tra Salorno e il Brennero in una comunità di poco più di 500.000 persone.
Un'autonomia che rischia di passare in minoranza nella terra per cui è stata concepita.
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