DAL MONDO DEL SOVRAPPESO ALL'UNIVERSO DELL'OBESITÁ
Odiernamente le teorie sul dimagrimento appaiono, se non miopi, piuttosto ingenue. Il senso comune da una parte, la scienza dall’altra e la comunicazione di massa che li distorce e amplifica nelle loro prospettive più aberranti: bisogna eliminare i grassi per dimagrire, mangiare poco per togliere i chili di troppo, l’obesità è una questione di geni e via dicendo; sono sintomi degeneranti della nostra società, i quali nascondono una causa più grande: la confusione. Si parla spesso della sofisticata colazione dei campioni invece di far riferimento a quella più naturale del contadino. Un modo di considerare come il lavoro in un campo di calcio goda di più credito di quello su un campo di grano.Le deduzioni si traducono in certezze lapidarie: “di tutto un po’”, characteristicae universales del regime alimentare corrente. Passa sotto il silenzio l’individualità. Ci si affida ai consigli di quel conoscente che, durante un incontro, con spontaneità sanguinaria, stipulava menù dietetici stravaganti. Si avanza con la dieta: un bicchiere d’acqua, un piattino di riso, la carne senza sale, la lunetta delle verdure… che ci farà messo lì, quasi per caso, il dolce!? Ed ecco l’impetuoso focolare (al picco!) di una suprema libidine zuccherina (la petite mort!) generato dal flusso ormonico: ha inizio il duello con le leggi dell’evoluzionismo. L’adrenalina bagna i neuroni, la salivazione è un fiume in piena, la pupilla si dilata mentre il riflesso di un cibo proibito viene obliterato sul liquido lacrimale che ricopre la membrana vitrea dell’occhio (lo sguardo lo indica senza possibilità d’errore).In questo frangente la motivazione è barriera che tiene a freno i desideri e le voglie. Essi si accumulano come acqua in una diga.In questo peculiare meccanismo risalta l’efficienza dell’ipotalamo e della corteccia cerebrale che sono coinvolti nell'organizzazione dei comportamenti mirati a uno scopo: le incursioni nel frigorifero. La diga cede. Quello che doveva essere l’ennesimo “pasto dietetico” si trasforma – dopo qualche istante – in un’abbuffata cannibalesca. L’effetto endorfinergico si sedimenta nei movimenti parcellari degli zigomi dopo la distruzione della diga motivazionale.Sorge il sorriso. Straripano le risposte sensoriali e il soggetto viene uraganizzato nei voraci desideri metabolici del cervello. Molto spesso la realtà dell’obeso – e meno frequentemente del soggetto in sovrappeso –si presenta in questo modo: un vagar faticoso dietro desideri che non sarebbero mai soddisfatti completamente e che, anzi, produrrebbero una solida contraddizione: l’immediato piacere del cibo e la successiva sofferenza (senso di colpa). Termini come perseveranza, forza di volontà, motivazione rappresentano le uniche speranze alle quali far riferimento. A peggiorare tale circostanza è l’incapacità di alcuni professionisti di mettersi nei panni dell’altro, di produrre empatia, di partecipare emotivamente al vissuto del proprio paziente, di comunicare all’individuo piuttosto che a “classi di individui” , di porre rimedio ad una immaginazione arrovellata nella brama del cibo. In questo panorama attuale la dieta, spesso considerata come ipotesi jolly, tiranneggia come l’orco o la strega nelle fiabe. Ripetuta coattivamente, si spera che, a forza di seguirla scrupolosamente, si ottenga il risultato desiderato. Presto si forma un triangolo drammatico: dieta, abbuffata, senso di colpa ovvero l’individuo tra “persecutore” e “salvatore” in un effetto perverso che, con il tempo, ospedalizza il corpo nella buia realtà del grasso. Vittime del disprezzo della società, desiderosi di uno sguardo che desidera d’esser cieco di fronte alle tentazioni, creature che vivono fra il più e non ancora, la raffigurazione degli obesi si presenta in questi termini.
Ma quale rimedio? Necessita, a questo punto, introdurre una prospettiva che permetta una lettura di questa realtà.Per inoltrarci in questa palude epistemologica – dove è molto facile perdersi o rimanere intrappolati – sarebbe per caso auspicabile guardare con la lente scientifica dell’osservazione? Dovremmo, in questo caso, affinare quanto più possibile il nostro fiuto clinico esplorando i meandri dell’inconscio con la “proboscide” analitica invece che col “terzo orecchio”? O, semplicemente, basterebbe gabellare la faccenda obesità come “fatto clinico” (certamente appannaggio di specialisti selvaggi) più che condizione cronica conseguente alla presenza di tracce mnestiche e, quindi, abitudini comportamentali poco utili e dannose. Cosa ben spiegabile, l’ingrassamento, quale preavviso rimescolio di riflessi stabilmente condizionati. Per fare un esempio possiamo sostenere che per dimagrire occorra nutrirsi bene, ma sappiamo anche, dalla psicologia, che circa l’85% dei nostri comportamenti sono abituali, compresi quelli alimentari. Ma quanti di questi sono utili ai fini del dimagrimento? Il padre della psicologia americana, Williams James, affermò “La più grande scoperta della mia generazione è che gli esseri umani possono cambiare le loro vite cambiando le abitudini mentali”. Molti individui abbandonano la dieta non perché hanno poca forza di volontà ma perché non hanno trovato dei comportamenti utili che li indirizzano al successo, o meglio non sono stati “rinforzati” rispetto all’ottenimento di quel comportamento. In altri termini, pur possedendo un programma dimagrante stilato in base alla loro individualità, potrebbero continuare a possedere delle “abitudini mentali” non utili all’obiettivo prefissato. L’impegno a superare determinati “obstacles” – soprattutto di natura concettuale – può essere attuato con la presa in carico della prospettiva psico-socio-biologica. Abolite le singolarità decontestualizzate e le assolutizzazioni di branca, propendendo per la visione molteplice delle cose, per l’eclettismo, per un approccio olistico e una dimensione “panteistica” del corpo umano, o, come direbbero i francesi “un système où tout se tient”: far convergere più discipline tra loro – stabilendo le dovute priorità in base alle necessità individuali del cliente – è un approccio che si potrà osservare anche sulle “note” di questo libro. Vietata dunque la prospettiva secondo la quale discipline come la dietologia – portate al più alto grado meccanicistico – utilizzano il mentale solo come materiale d’astrazione, ove il fenomeno corporeo e quello psichico non si fondono l’uno nell’altro. Del resto, sarebbe più auspicabile insistere con i principi di una determinata posizione teorica (come potrebbe essere la visione dietologica) per arrivare a certe conclusioni, oppure partire da certe conclusioni (è il caso di una spiegazione “psico-comportamentale dell’azione alimentare) per arrivare alla precitata posizione teorica? Esistono, infatti, sintomi che possono essere interpretati prendendo come bussola l’impalcatura primitivistico-inconscia dell’uomo; altri in termini di predisposizione genetica; ed altri ancora valutando le pressioni ambientali con le quali l’individuo viene sollecitato e via dicendo.
Tutte queste prospettive s’intrecciano nel mondo del sovrappeso fino a dilatarsi nell’universo dell’obesità.