Gesellschaft | La festa

La luce e le bandiere del 25 aprile

“L’improvvisa vertigine d’una vastità sconfinata, che accoglie e dissolve la pena, le angosce di nove mesi, ove lo stesso sollievo si smarrisce”. Così lo scrittore Paolo Monelli rievocava le giornate della liberazione di Roma che, di lì a poco, si sarebbe estesa a tutto il paese.

Il 25 aprile rammemora quello indelebile del 1945. Aprile, che il poeta Eliot definiva il più crudele dei mesi nell’attacco della poesia The Burial of the Dead ("April is the cruellest month, breeding / Lilacs out of the dead land, mixing / Memory and desidere, stirring / Dull roots with spring rain") non è più per noi una terra desolata. Aprile squilla di luce, invece. E la luce irrompe, come irrompono le bandiere nelle contrade liberate dalle divise nere agli ordini del camerata Kasselring. Così può tornare il “sacro della primavera” (Zanzotto).

Il 25 aprile in Sudtirolo, al contrario, è sempre stato luce offuscata, bandiere impregnate di pioggia, anche se magari non avremo più il commento beota (“Il nostro 25 aprile fu l’8 settembre”) uscito dalla bocca dell’ex vicesindaco di Bolzano Oswald Ellecosta. Non una festa di popolo, solo eine Staatsfeierlichkeit dai contorni sempre più incerti, soprattutto per i giovani. Al massimo parate, discorsi di circostanza, senso del supposto dovere. Non per tutti, però. E per fortuna. Ne avevamo dato notizia qualche giorno fa. Già qualcuno si appella al significato “comune” di questa festa e lo scopre, più che ricordarlo.

Ma chi volesse respirare un po’ di quella luce può rileggersi l’ultima pagina di un libro che è la cronaca della sua preparazione. Roma 1943, di Paolo Monelli. La trascriviamo invitando a una gioiosa meditazione.

La sera scende limpida, fresca. Il crepuscolo si è fuso col chiarore della luna che sorge. Rientrano in casa i cittadini, disciplinati, all’ora del coprifuoco; ma indugiano sulle soglie, stanno alle finestre, tendono l’orecchio al grande silenzio. Ed ecco scoppi di combattimento vicinissimo, battere di mitragliatrici, latrati di bombe. E di nuovo silenzio, limitato da un uguale lontano brontolio di motori. Sto anch’io al balcone, con gli amici che mi ospitano. Sentiamo d’un tratto venire da via Veneto un batter di mani, grida di evviva. Davanti all’Excelsior c’è un piccolo gruppo eccitato di persone. Dicono che son passati tre o quattro carri armati inglesi o americani, non sanno bene: ringraziavano degli applausi, pregavano che non gli si facesse perdere tempo, chiedevano la via per Ponte Milvio, dovevano subito buttarsi dietro ai tedeschi. Corriamo verso piazza Barberini, verso un vicino ansimare di motori. La piazza è deserta, chiara nella luce della luna. Un enorme carro armato è fermo all’angolo delle Quattro Fontane; quando ci arriviamo, vediamo una fila di altri carri su per la salita, fermi. C’è attorno un brusio, d’una piccola folla curiosa, alacre, che non grida, che non acclama. Un soldato altissimo, magro, è in piedi a terra davanti al primo carro, mastica qualcosa. La gente lo guarda, non dice niente. Chiedo: “Where do you came from?” “From Texas”, risponde. Ho l’improvvisa vertigine d’una vastità sconfinata, che accoglie e dissolve la pena, le angosce di nove mesi, ove lo stesso sollievo si smarrisce. Arrivano due ragazzette con una bandiera tricolore in mano, la danno al soldato. Il soldato, serio, si volge in su verso i compagni seduti in cima al carro, le gambe penzoloni. “Here is a flag”. Uno stende una mano, afferra la bandiera, la issa sulla torretta.