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Politik | Accadde domani

Arrestate la SVP!

Un libro, un saggio e un memoriale illuminano uno dei passaggi più inquietanti della crisi politica che portò alla fine della prima autonomia e alla nascita del secondo Statuto.

  • Controguerriglia preventiva: questo il termine utilizzato dai militari per definire una strategia da applicare nei confronti di chi, nemico esterno o interno, volesse conquistare un paese. In Italia, nell’ambito delle alte gerarchie militari, se ne parla spesso all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando gli alti gradi delle Forze Armate iniziano ad interrogarsi sul modo migliore di rispondere al mutato assetto degli equilibri internazionali. L’Esercito italiano, tradizionalmente diffidente, sin dai tempi di Garibaldi, verso ogni forma di affiancamento dei cosiddetti “corpi franchi”, si trova a dover fare i conti con la guerriglia da all’indomani dell’Unità con il brigantaggio meridionale e poi con i ribelli in Libia, in Etiopia, con i partigiani di Tito nei Balcani. Poi, tra il 1943 del 1945, la Resistenza che diventa fattore preponderante dell’impegno italiano contro i nazifascisti.

    Nel dopoguerra, deflagrata ormai ufficialmente la Guerra Fredda, generali e ammiragli si pongono alcuni problemi. Definito l’assetto dei militari italiani nell’ambito della Nato, resta l’interrogativo su come affrontare i possibili tentativi di sovversione, disarticolazione delle strutture statali, affiancamento di reparti partigiani all’invasore. È chiaro che la prospettiva è quella di un confronto, sentito come tutt’altro che remoto, con l’Unione Sovietica i suoi satelliti e, sul piano interno, con le forze politiche, Partito Comunista in primo piano, che di quell’avversario sarebbero i naturali fiancheggiatori.

    Fioriscono così le teorie sulla predisposizione di gruppi armati da attivare in caso di occupazione del territorio, la famosa dottrina “stay behind” che trova applicazione numerosi Stati dell’Europa occidentale e che in Italia assume le vesti di “Gladio”.

    C’è però un ulteriore sviluppo di questa strategia che consiste nell’ipotizzare che la controguerriglia, realizzata attraverso mezzi di propaganda e azioni di contrasto militare, non debba attendere per essere esplicata che il nemico muova le sue pedine, ma che possa essere usata prima, con maggiore efficacia.

    Tutto il dibattito su questo e sugli altri fondamentali temi che si agitano in campo militare in quel periodo cruciale tra il 1945 e il 1974 viene delineato con estrema chiarezza in un saggio da poco approdato agli scaffali delle librerie. L’autore è un ricercatore storico dell’Università di Bologna, Jacopo Lorenzini, da tempo impegnato nella ricerca sulla storia delle istituzioni militari. Il titolo del volume dice già molto: “I colonnelli della Repubblica - Esercito, eversione e democrazia in Italia”.

    Nelle oltre trecento pagine del libro c’è spazio per un racconto che inizia proprio all’indomani del 25 aprile 1945 e che si conclude sulle piazze di un Italia insanguinata dalle stragi e dilaniata dalla strategia della tensione.

    In quest’ambito trovano posto anche alcune pagine dedicate alla situazione altoatesina e al ruolo che vi giocò, proprio in funzione di quella controguerriglia preventiva di cui si è detto sopra, un personaggio di spicco come il generale Angelo Beolchini.

  • Aldo Beolchini: Foto: aldo_beolchini.jpg
  • Un generale a Bolzano

    Beolchini giunge nel capoluogo altoatesino per assumere il comando del Corpo d’Armata il 7 giugno del 1959. Vi rimarrà sino all’aprile del 1961. Poco meno di due anni nei quali l’alto ufficiale si getterà con impeto dalla battaglia politica che stava raggiungendo il suo acme dopo la crisi ormai conclamata della prima autonomia regionale.

    L’uomo che assume il comando delle truppe alpine ha già dietro di sé una lunga storia. Nato a Parma nel 1906, abbraccia la tradizione familiare con l’iscrizione alla scuola ufficiali di Torino. Partecipa su vari fronti, tra cui quello russo, al secondo conflitto mondiale e poi, rimasto fedele al Regno del Sud dopo l’8 settembre 1943, partecipa alla Resistenza del Corpo Volontari della Libertà. Nel dopoguerra percorre rapidamente i vari gradi della carriera militare. È a Bolzano già nel 1955 per alcuni mesi, ma ritorna, come detto, quattro anni dopo per assumere il comando di una delle principali unità militari dell’Esercito, comprendente le divisioni Orobica di Merano, Tridentina a Bressanone e Cadore a Belluno.

    Il quadro politico in cui si trova ad operare è caratterizzato da un rovente scontro politico, mentre anche sul piano dell’ordine pubblico si moltiplicano gli episodi di terrorismo. Con la metà degli anni 50 il rifiuto della Südtiroler Volkspartei di continuare l’esperienza dell’autonomia regionale del 1948 diviene fatto compiuto, cristallizzato, nel 1957, dal “Los von Trient” di Magnago.  Contemporaneamente l’Austria, tornata pienamente indipendente dopo il Trattato di Stato, sostiene con vigore la posizione dei sudtirolesi e si appresta, con il dinamismo del Ministro degli Esteri Bruno Keisky, a portare sul piano internazionale la vertenza altoatesina, che l’Italia all’opposto, continua a ritenere chiusa. Il dialogo tra Roma e Bolzano è ad un punto morto come ha chiarito con durezza inusitata, il Ministro degli Interni Tambroni, arrivato a Bolzano nell’autunno del 1956 per inaugurare la Fiera.

  • Palazzo Alto Comandi di piazza IV novembre a Bolzano: Foto: privat
  • Ad accendere ulteriormente il clima anche alcuni attentati terroristici con quei mesi vedono ordigni esplosivi collocati accanto a case popolari in costruzione. I giorni in cui il generale mette piede nei suoi uffici di piazza 4 novembre sono anche quelli nei quali in molte località dell’Alto Adige si celebrano i fasti del 150º anniversario della rivolta hoferiana del 1809. A settembre la grande sfilata di Innsbruck nel corso della quale compare, portata a spalla dagli Schützen del Burgraviato, la corona di spine simboleggiante il martirio del popolo sudtirolese diviso dal confine del Brennero.

    È una temperie politica nella quale l’alto ufficiale si getta da subito a corpo morto.

    Le memorie e gli archivi

    Le fonti cui Lorenzini attinge per raccontare quello che farà Beolchini in quei mesi cruciali sono soprattutto due. Tra il 1981 il 1982, Beolchini registra su nastro le sue memorie. Una parte di quei racconti costituiscono il testo di un volume intitolato “Le memorie del nonno generale” che i nipoti provvedono a far digitalizzare nel 2020. Nel libro il generale ripercorre in una serie di capitoli tutti i vari passaggi della sua lunga carriera militare, ivi compresi, ovviamente, anche quelli che riguardano il periodo passato a Bolzano. Ci sono tutte le considerazioni di tipo politico, ma vi sono solo accennati i drastici provvedimenti che Beolchini propone a Roma di prendere per stroncare quella che lui ritiene l’ormai prossima rivolta organizzata dalla Südtiroler Volkspartei. Questi testi sono disponibili invece negli archivi dei vari soggetti politici cui furono indirizzati, primo tra tutti quello personale di Giulio Andreotti conservato presso l’Istituto Sturzo di Roma.

    Nel suo libro sui colonnelli della Repubblica Lorenzini dedica alla vicenda, come detto, solo alcune pagine che costituiscono però la sintesi di un saggio molto più lungo ed esaustivo comparso con il titolo “Fantasma totalitario e democrazia blindata - La questione altoatesina nelle carte del generale Aldo Beolchini 1959-1961” e comparso nel 2024 sul numero due della rivista “Quellen und Forschungen aus intalienischen Archiven un Bibliotheken” edita dall’Ambasciata tedesca di Roma. Un testo di oltre 30 pagine, corredato da un ampio apparato di note e nel quale l’attività del generale nei mesi passati a Bolzano è sviscerata sin nei più minimi particolari.

    La SVP, il nazismo e il KGB

    Già nelle prime settimane del suo comando bolzanino il generale si convince dunque fortemente dell’esistenza di un grave pericolo rappresentato dai sudtirolesi organizzati e diretti dalla SVP che si preparerebbe, contando tra l’altro sulle formazioni paramilitari degli Schützen, a scatenare una ribellione mirante a separare l’Alto Adige dal resto dell’Italia.

    Non si sa, lui non lo dice, se questa forte convinzione Beolchini se la porti appresso già quando mette piede nel nuovo ufficio, ma è certo invece che essa riflette e adatta al caso altoatesino un modello di pensiero in quegli anni è molto diffuso negli ambienti militari italiani. C’è la guerra fredda e i generali ritengono che quando il conflitto scoppierà occorrerà fare i conti non solo con le colonne corazzate sovietiche in marcia da est ma anche con una ribellione interna ben organizzata dall’apparato segreto che il Partito Comunista ha conservato gelosamente sin dai tempi della Resistenza.

    È per far fronte a questo pericolo specifico che viene elaborato il concetto dell’antiguerriglia preventiva: colpire per primi in modo da disarticolare il nemico e impedire che esso possa passare all’azione per agevolare dall’interno l’assalto del nemico esterno.

    Da questa linea di pensiero discende anche il dibattito tutt’altro che marginale in quegli anni, sull’opportunità di intervenire “manu militari” contro il PCI sciogliendo il partito e arrestando tutti i principali esponenti della sinistra.

    Quello che Beolchini fa non è altro che riportare lo stesso modello tattico alla situazione altoatesina. Dopo alcuni mesi indirizza dapprima ai suoi superiori e poi ai suoi principali referenti sul piano politico un memoriale nel quale, dopo aver analizzato in termini di cupo pessimismo e di grande allarme, la situazione che a suo giudizio si va delineando in Alto Adige, propone una cura drastica quanto più non potrebbe essere: arresto dei principali esponenti della Südtiroler Volkspartei; Silvius Magnago, Hans Stanek, Alfons Benedikter, Friedl Volgger, Walther Amonn, Peter Brugger, e persino i parlamentari Toni Ebner e Karl Tinzl. Ed ancora: divieto di ingresso in Italia per tutti gli esponenti austriaci considerati pericolosi, scioglimento degli Schützen oltre ovviamente a durissime misure di ordine pubblico. 

    Il memoriale Beolchini trae alimento anche da un ragionamento complessivo di politica internazionale. La SVP è accusata di perpetuare posizioni neonaziste, ma al contempo si pensa che la manovra potrebbe essere appoggiata da Mosca per indebolire un anello essenziale nel raccordo tra il fronte nord e il fronte sud della Nato.

    Per fornire una base giuridica alle sue argomentazioni il generale recupera una delle degli “fascistissime” che, a metà degli anni 20, portarono alla definitiva trasformazione del vecchio Stato liberale in una dittatura. La legge numero 108 del 1926 prevede tutta una serie di interventi diretti contro coloro che all’interno e all’estero promuovono attività antistatale; arresto, espulsione, perdita della cittadinanza. Abrogata solo in tempi più recenti la legge era ancora in vigore, come altre del codice fascista, nel 1959 e generale ne approfitta. Il suo progetto passa nelle mani del Capo di Stato Maggiore generale Lucini che lo trasmette per competenza al Ministro della Difesa.

    Qui torna sul proscenio un personaggio che accompagna le vicende altoatesine della prima Repubblica dai tempi dell’Accordo De Gasperi-Gruber fino alla chiusura della vertenza internazionale nel 1992: Giulio Andreotti.

     

    Distribuite le munizioni

    Così, mentre ispeziona personalmente e assiduamente i reparti che sono dislocati nel nordest della provincia e che occupano i vecchi bunker fatti costruire da Mussolini nell’ambito della linea fortificata del Vallo Alpino del Littorio, Beolchini, visto che i superiori e i politici non gli danno via libera per i suoi progetti di controguerriglia preventiva, si accontenta per il momento di predisporre forze di intervento rapido da scatenare all’occorrenza contro gli insorgenti sudtirolesi. Ecco come Lorenzini racconta nel suo saggio le mosse del generale nell’inverno del 1960.

    Nel frattempo, sul piano pratico, Beolchini non è rimasto con le mani in mano. Il 12 feb­braio del 1960 parte dal comando di corpo d’armata una circolare diretta a tutte le unità dipendenti, secondo la quale „l’attuale situazione alto-atesina potrebbe sfociare in azioni inconsulte, sia sporadiche sia organizzate, tanto individuali quanto di gruppo“. Beolchini ordina di conseguenza che ciascuna delle tre brigate alpine appronti un gruppo tattico autotrasportabile, costituito da una compagnia alpina per battaglione e da una batteria per gruppo d’artiglieria, e che tali truppe vengano tenute pronte ad intervenire immediatamente in tutto il territorio del corpo d’armata. Inoltre deve essere fornito a tutti i reparti il „munizionamento o. p. [ordine pubblico] individuale, in pac­chetti sigillati“.La preoccupazione del generale è che la struttura clandestina della SVP si stia preparando ad una sollevazione armata.

    Le prescrizioni restano in vigore fino al 22 marzo: per un mese e mezzo, il IV corpo d’armata si trova in un vero e proprio stato di allerta controinsurrezionale.

    Un generale all’ONU

    Quell’anno, il 1960, è anche quello del quale le manovre austriache riescono a portare il problema altoatesino all’attenzione dell’Assemblea Generale dell’ONU. Stando alle sue memorie qui il generale giocherebbe un ruolo di vero e proprio consigliere segreto della delegazione italiana, inviando New York memoriali e materiale che, egli afferma, risulteranno utilissimi per bloccare le mene di Vienna. Un contributo che gli sarebbe stato riconosciuto anche dagli esponenti della diplomazia italiana, ma del quale, stranamente, non si trova cenno nella ricostruzione di quei fatti contenuta nel lavoro di Mario Toscano, che pure in quella vicenda recitò veramente un ruolo di protagonista.

    Berloffa traditiore, Mitolo bravo italiano.

    Mentre prepara le contromisure armate alla rivolta che giudica imminente e mentre si muove a livello nazionale e internazionale, il generale Aldo Beolchini si confronta, anche in questo caso non senza asprezze, con il mondo politico locale. Quanto agli uomini della Südtiroler Volkspartei non ci sono mezze misure: li vorrebbe tutti in manette. In campo italiano i giudizi sono invece diversificati. L’altro ufficiale esprime giudizi durissimi sul democristiano Alcide Berloffa, che in quegli anni ha assunto la gestione del partito in Alto Adige. Lo giudica né più nemmeno un traditore degli italiani ed è evidente che non gli dispiacerebbe di fargli fare la stessa fine dei suoi interlocutori sudtirolesi. Stessa cosa per l’ex partigiana Lidia Menapace, accanto a Berloffa sino al suo passaggio nelle file della sinistra extraparlamentare. Elogi invece per il missino Mitolo, giudicato “un buon italiano”. A Trento il rapporto sembra buono con il presidente regionale Odorizzi, mentre è scontro con il sindaco Nilo Piccoli per una questione di esercitazioni militari sul Bondone.

    Beolchini mette in fila, sulla sua personale lavagna, i buoni e cattivi, ma, nel contempo, deve districarsi nei grovigli della politica nazionale. Ha iniziato, come si è detto, a mandare il suo memoriale con le proposte per la controguerriglia preventiva ai suoi superiori diretti. Il documento è stato inoltrato sul tavolo di Andreotti, al quale Beolchini, in seconda battuta, si rivolge direttamente, ricavandone, a quanto egli afferma, una benevola attenzione. Gli battono le mani sulle spalle, ma poi nulla si muove. Il generale, allora, compie una mossa che, come sottolinea nel suo saggio lo stesso Lorenzini, finirà per costargli cara. Mette ancora una volta nero su bianco le sue proposte e manda il tutto al Capo dello Stato Giovanni Gronchi, nella sua veste, si suppone, di vertice supremo delle Forze Armate.

    Il plico gli ritorna indietro con un messaggio abbastanza esplicito. Gronchi non l’avrebbe neppur letto (difficile crederlo), ma gli ricorda che simili iniziative vanno prese rispettando le gerarchie militari e politiche.

  • Mario Scelba: Foto: privat
  • Forse Beolchini intuisce che qualcuno a Roma non apprezza i suoi sforzi ma, a quanto scrive, viene preso di sorpresa, quando, nelle prime settimane del 1961, il “suo” Ministro Andreotti lo dirotta verso il collega degli Interni Mario Scelba. L’incontro ha luogo con un esito, almeno dal punto di vista del generale assolutamente disastroso. Scelba oltre a rimproverargli di aver pesantemente debordato dalle sue competenze, gli contesta punto su punto tutte le sue valutazioni e quindi manda nel cestino della carta straccia tutte le sue proposte.

    Gli effetti pratici dello scontro si vedono qualche settimana dopo, nell’aprile del 1961, quando Aldo Beolchini viene trasferito da Bolzano ad un altro incarico a Firenze, non meno importante sul piano della carriera di quello altoatesino ma evidentemente meno “pericoloso”. La carriera dell’alto ufficiale prosegue così apparentemente senza intoppi. C’è da chiedersi come avrebbe reagito se fosse rimasto al comando degli alpini ancora per qualche mese, magari sino al giugno di quell’anno quando la celebre “Notte dei fuochi” sembra confermare per un attimo i suoi timori di uno scoppio della temuta guerra civile tra le Dolomiti.

    A gestire la situazione sarà invece proprio quel Ministro che lo ha pesantemente attaccato e fatto trasferire altrove. Mario Scelba, il celebre ministro di polizia, esecrato dai comunisti, ma anche portatore di una forte idealità autonomista, provvede alla repressione molto dura del fenomeno terroristico ma nel contempo, con l’istituzione della Commissione dei 19, sempre in quella torrida estate del 1961, apre la porta al dialogo con il mondo politico sudtirolese, nella prospettiva di concedere quelle profonde varianti della vecchia autonomia che il generale considerava come la più catastrofica per gli interessi dell’Italia e degli italiani.

    La trappola di Giulio

    In ultima analisi, essendo ben chiari il pensiero e l’agire del generale, ci si può domandare quale fu l’atteggiamento dei suoi referenti politici e in particolare di quelli Giulio Andreotti che, come già detto, anche in questo caso sembra accompagnare gli sviluppi della questione altoatesina. Beolchini ne rivendica la vicinanza e l’appoggio, anche dopo la cacciata da Bolzano, ma secondo Lorenzini Andreotti avrebbe semplicemente optato per una di quelle strategie ambigue che furono uno dei suoi marchi di fabbrica. Nel momento in cui occorreva spegnere drasticamente le velleità contro-insurrezionali del generale lo avrebbe dirottato su un collega come Scelba, competente per materia, evitando di doversi scontrare personalmente con un esponente di quella casta militare con la quale vantava ultimi rapporti.

    Che il legame tra il mondo politico e il generale fosse solido lo dimostra anche un altro particolare. Quando, nella primavera del 1967, divampa la polemica sul caso dei fascicoli SIFAR, è proprio Beolchini che l’allora Ministro Tremelloni chiama a condurre un’inchiesta che ha come principale bersaglio un altro generale, Giovanni De Lorenzo, accusato di aver schedato mezza Italia e di aver preparato le liste degli “enucleandi” da rinchiudere per prevenire il golpe sovversivo. Chissà se nel comporre la sua requisitoria verso il collega, Beolchini avrà pensato che in fondo non c’era poi questa gran differenza con i suoi progetti di mettere in manette tutta la Südtiroler Volkspartei.

  • I riferimenti:

    Il libro. Jacopo Lorenzini, “I colonnelli della Repubblica. Esercito, eversione e democrazia in Italia 1945 – 1974", Ed. Laterza, Bari 2025. 

    Il saggio: Jacopo Lorenzini, “Fantasma totalitario e democrazia blindata - La questione altoatesina nelle carte del generale Aldo Beolchini 1959-1961” su “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 2024 n.2. Scaricabile da questa pagina.

    Il diario: Aldo Beolchini, “Le memorie del nonno generale”, digitalizzato 2020, scaricabile previo pagamento di una piccola somma da questa pagina.