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Una coscienza di classe

Intervista allo scrittore maremmano Alberto Prunetti, che nel libro "108 metri" - fiction ancorata a vita vissuta - racconta un'epopea operaia nel Ventunesimo secolo.
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Foto: sdqm

Alberto Prunetti ha appena scritto il libro che racconta una generazione, quella dei nati tra gli anni Settanta e Ottanta. "108 metri" (il titolo è un omaggio alla lunghezza delle rotaie senza saldatura più lunghe al mondo, prodotte a Piombino, la città in cui l'autore è nato) è un esempio di fiction, ma tutto il racconto è ancorato a vicende realmente accadute, a cominciare da quelle che hanno portato l'autore, dopo una laurea in Scienze della Comunicazione, a vivere e lavorare per un anno e mezzo in Inghilterra, pizzaiolo, quindi inserviente alle mense, e anche pulitore di cessi in un centro commerciale.
"108 metri", uscito per Laterza, ha come sottotitolo "the new working class hero", il nuovo eroe proletario, e si chiude con queste parole: "Saprò che mai camminerò da solo". Traducendo il titolo di una canzone, popolare in quanto inno calcistico, "You'll never walk alone", Prunetti dà conto del frutto delle proprie ricerche, su ciò che resta della (leggendaria) working class inglese degli anni Sessanta e Settanta.

salto.bz: Davvero, come scrivi nel libro, annotavi sui tuoi quaderni i fatti del tuo periodo inglese, immaginando di trasformarli in un libro?
Alberto Prunetti: Sì e no. Quand'ero in Inghilterra, tra il 2000 e il 2002, avevo già scritto "Potassa", ma l'avrei pubblicato solo al mio rientro. Mi comunicarono che sarebbe uscito poco prima del ritorno, e allora pensavo che sarebbe stato il mio unico libro. Non mi vedevo ancora come uno scrittore: l'atto dello scrivere e quello del pubblicare erano separati per me; scrivevo cose che facevo leggere ai miei amici.
In quel momento, così, scrivere serviva prima di tutto a me: intanto a raccontare le cose dal mio punto di vista, perché non accettavo di "stare al mio posto", come mi dicevano tutti i supervisor, e ricostruire la vicenda raccontandola a modo mio era uno strumento di reazione, per non accettare la subalternità, la sconfitta. Una forma di guerriglia semiotica, parodiando la realtà: un meccanismo che misi in atto già durante il corso di formazione per il Food and Health Certificate, quando invece di scrivere gli appunti come me li dettavano li riportavo in modo ironico. Frasi che sono diventate l'incipit del libro.
Nel libro, però, non abbraccio solo la mia storia. Per questo, il tempo è fittizio. Nella realtà, sono rientrato in Italia all'inizio del 2002, ma il libro copre un arco temporale di quasi vent'anni, condensati. Nel libro, al mio rientro trovo chiuso l'impianto siderurgico di Piombino (è successo nel 2014) e mio padre vivo, anche se in realtà è morto dieci anni prima dello spegnimento dell'altoforno (Renato, padre di Alberto e protagonista di "Amianto", è morto nel 2004, ndr). E prima della mia partenza dall'Inghilterra c'è anche l'annuncio della Brexit, con l'omicidio della parlamentare laburista Jo Cox (giugno 2016).

Che aiuto offre, a te e al lettore, quasta compressione temporale?
A mettere a confronto due tipologie di lavoratori, Renato e il figlio. Da una parte la vecchia classe operaia, che viveva una forte socialità, faceva lavori che davano un prestigio sociale, e poteva contare su valori condivisi, a partire dalla diffidenza verso il "quattrinaio", il padrone. Era quella che si definiva aristocrazia operaia, fortemenre sindacalizzata.
La generazione successiva, la nostra, fa lavori noiosi e anche inutili, con contratti a scadenza continuamente rinnovati, pratiche molto astute che costringono a una competizione continua, e aprono a una rivalità verso il collega e non verso il padrone. Ecco il senso del "non camminerai mai da solo", ma la ricerca della leggendaria working class che votava il vecchio Labour non ha successo.
La società che si trova davanti è tatcherizzata, blairizzata, è il mondo raccontato da Irvine Welsh, quello dei figli degli stipatori del molo di Edimburgo che non hanno più un lavoro, e quindi vivono grazie ai sussidi e a piccole truffe, e si drogano. È un viaggio alla ricerca di solidarietà nel materiale umano della nuova working class, figlia di un cambiamento antropologico indotto. Ecco perché nel libro compare anche Margaret Thatcher, per cui non esisteva la società ma solo gli individui: il suo fantasma porta le tossine dell'idolo neoliberista.

Il liberismo idolatra anche l'idea di "merito", come fattore di promozione sociale. Un altro mito retorico che il libro abbatte.
Siamo inondati dalla retorica scelta dai giornalisti per raccontare un fenomeno sociale. Anche se è più alto il numero degli italiani che abbandonano l'Italia rispetto a quello degli immigrati che desiderano vivere nel nostro Paese, mentre quelli del Sud del mondo vengono presentati quasi sempre come trogloditi o barbari, i nostri sono tutti coltissimi, futuri imprenditori. La realtà è ben diversa: il 90-95% di coloro che vanno a Londra, o a Berlino, finoscono col lavorare nelle cucine, e anche se tanti hanno una laurea (come il protagonista del libro, ndr) fanno comunque lavoracci. Eppure per i media quando ce n'è qualcuno che effettivamente ha una storia di immigrazione felice, allora diventa "notiziabile", e si racconta della sua start-up.
Secondo me, l'abbiamo raccontata male. Il mio libro è un tentativo di modificare questa retorica.
Perché la realtà è che partono tutti: chi ha un capitale culturale ed economico più alto in famiglia da investire, l'opportunità di viaggiare, di fare studi all'estero, quando emigra si trova forse un miglior trampolino di lancio.
Ma il lavoro dei giornalisti è diventato una caricatura. E m'innervosiva.

Tu che immigrato eri?
Ero un proletario, per diritto di nascita, in fuga. Ma ero anche un laureato. Avevo maturato competenze intellettuali che non riuscivo a soddisfare. Non avevo possibilità di lavoro. Invece di osannare gli startupper che fan successo all'estero, chiediamoci perché l'Italia realizzi investimenti in capitale culturale che non sa poi mettere a frutto, formando risorse che facciamo poi sfruttare da altri.
Di questo dovremo occuparci, di una contrazione del mercato del lavoro cui si accompagna la sostituzione del lavoro di qualità con un nuovo caporalato, che sia in ambito culturale, manuale o agricolo... questi sono i chiodi da conficcare nella retorica del Capitale. Tutto il resto è fuffa: non siamo bravi, ma pessimi. Se è vero che la democratizzazione nell'accesso allo studio ha permesso di fare il liceo anche a chi veniva da famiglie operaie, come me, poi un affaccio congruo al mondo del lavoro non c'era. E allora anche questo meccanismo di apertura nella scuola diventa una presa di giro.
Sono grato alla scuola italiana, ma arrabbiato con chi gestisce le leve dell'economia. Il classismo più che nella scuola è nella società.

Il libro è dedicato ad Abd Elsalam Ahmed Eldanf, facchino travolto e ucciso durante un picchetto a Piacenza, nel settembre del 2016. Perché?
Nel libro faccio simmetrie tra mia esperienza di immigrato in Inghilterra, e quella dei ragazzi del Sud del mondo che arrivano in Italia. Abd era un maestro, in Egitto, e in Italia si era adeguato a questo lavoro operaio in uno degli ambiti più conflittuali, che è anche uno dei settori chiave della nostra economia, che non è più guidata da logiche di produzione ma di distribuzione. La logistica è tra i pochi settori che cresce e assume, e per fortuna c'è un forte conflitto sociale, con vertenze anche vittoriose. Nella ristorazione è molto più difficile far entrare il sindacato, scioperare; c'è molto nero, molto grigio. Gli operai della logistica riescono invece a far fronte comune contro il grande proprietario. E rappresenta per me un piccolo omaggio a un settore fondamentale.