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La pizza moderna è nata a Chicago?

In "Denominazione d’Origine Inventata", Alberto Grandi restituisce un'analisi storica delle radici della nostra cucina, rivelando le idee pubblicitarie dell'agroalimentare
Alberto Grandi
Foto:  gambero rosso
  • Il cioccolato di Modica? Un’invenzione del secolo scorso. Il pomodoro di Pachino? Una varietà nata dalla ricerca israeliana. Il lardo di Colonnata? Un’abile mossa di marketing. Sono queste le tesi del volume Denominazione di Origine Inventata del Professor Alberto Grandi, docente di storia delle imprese e storia dell’integrazione europea all’Università di Parma, che nei suoi studi di storia dell’alimentazione ha avuto modo di approfondire il percorso della cucina italiana nei secoli e l’impegno profuso nella promozione dei prodotti del settore agroalimentare italiano. 

  • "Con una più accurata analisi storica, però, sembra che le radici delle ricette non siano poi così antiche e che molti dei miti legati ai prodotti italiani siano nati nella seconda metà del Novecento. Foto: Mandadori
  • Sono innumerevoli, infatti, le leggende che vengono raccontate sulla nascita delle varie pietanze italiane: alcune vengono ricondotte a tempi antichissimi, come nel caso del lardo di Colonnata, considerato una prelibatezza per il suo gusto e il suo apporto energetico già dagli antichi romani o come nel caso del Parmigiano, citato addirittura nei suoi scritti da Giovanni Boccaccio. Con una più accurata analisi storica, però, sembra che le radici delle ricette non siano poi così antiche e che molti dei miti legati ai prodotti italiani siano nati nella seconda metà del Novecento, quando la ricostruzione post bellica ha finalmente permesso alla popolazione italiana di emanciparsi dalla fame atavica che aveva attanagliato per secoli l’intero paese: dalle montagne del Veneto alle coste della Sicilia gli abitanti erano accomunati da una lotta disperata per riuscire a racimolare almeno un pasto al giorno, ben lontani dalle raffinatezze che contraddistinguono le cucine odierne, bombardate dal susseguirsi dei programmi culinari cresciuti esponenzialmente negli ultimi 10 anni. Prima che il boom economico portasse nelle case non solo gli elettrodomestici come i forni e i frigoriferi ma anche la possibilità di trovare cibo per riempirli, difficilmente si riusciva ad imbandire le tavole, sulle quali, al contrario, carne e condimenti scarseggiavano, per lasciare spazio (poco) a legumi, polenta e scarne focacce. Perfino la pizza era, inizialmente, condita con grasso derivante dallo scarto della lavorazione del maiale, mentre la pasta non era poi così diffusa. Piatti come il tiramisù, che deve il suo successo al mantenimento della catena del freddo e alla conservazione di uova e mascarpone, risultavano di fatto irrealizzabili.

     L’emigrazione di massa mette in contatto gli Italiani con i nuovi metodi di produzione e di conservazione del cibo e diventa un passo fondamentale per rielaborare le vecchie ricette della fame

    Tali difficili condizioni di sopravvivenza sono diventate il motore della grande migrazione italiana verso altri paesi, soprattutto verso gli Stati Uniti, nei quali gli Italiani sono entrati finalmente in contatto con lavorazioni diverse di ingredienti a loro sì familiari, ma meno costosi e più abbondanti. Ed è proprio questo passaggio che, secondo Alberto Grandi, permette di arrivare alla cucina italiana moderna, più vicina ai gusti odierni, fatta di passata di pomodoro, formaggi e pasta ben lievitata. L’emigrazione di massa mette in contatto gli Italiani con i nuovi metodi di produzione e di conservazione del cibo e diventa un passo fondamentale per rielaborare le vecchie ricette della fame, rendendole più ricche e più simili a quelle attuali. Molte di queste pietanze tornano successivamente in Italia, aiutate dal passaparola dei parenti emigrati, fino ad ottenere un riconoscimento completo nella cucina nostrana ed una diffusione mondiale con il sigillo dell’italianità.

    Sono innumerevoli, infatti, le leggende che vengono raccontate sulla nascita delle varie pietanze italiane

    Nonostante ormai ci si riferisca al fenomeno per il quale elementi culturali di un popolo vengono trasformati all’estero e, più tardi, reinseriti nel paese d’origine come fenomeno del Pizza Effect, il libro del Professor Alberto Grandi ha scatenato polemiche feroci tra i produttori italiani, che lo hanno accusato di voler affossare il settore agroalimentare, arrivando, dopo una criticatissima intervista al Financial Times, fino all’esilarante definizione di terrapiattista della cucina, affibbiatogli dai non sempre autoironici Partenopei. Eppure l’accurata ricostruzione di Grandi sembra essere piuttosto un omaggio alla capacità industriale italiana, che in pochissimo tempo ha saputo conquistare importanti fette di mercato proprio grazie a prodotti ormai famosi in tutto il globo, dal prosecco, al panettone, passando per il celeberrimo parmigiano. Siamo davvero sicuri che l’ossessione per le nostre radici culinarie non sia solo un altro modo per non voler ricordare il nostro passato di popolo affamato? 

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