Punizionisti & antipunizionisti
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L’articolo della sociologa Chiara Saraceno “La scuola che minaccia non educa nessuno”, apparso sulla Stampa dell’11 marzo, chiarisce assai bene il caos educativo in cui versa la scuola italiana. Profondamente divisa al suo interno tra chi è favorevole all’uso educativo della punizione e chi invece l’aborrisce, fatica a progredire nella sua azione formativa.
L’articolista, esponente di punta degli anti-punizionisti, riferisce di un seminario online (rete “educAzioni”) organizzato appunto per spiegare le ragioni di questa avversione: tema trattato, “Punire e umiliare non è educare”; relatore d’eccezione, l’ex-magistrato di “mani pulite” Gherardo Colombo; pietra dello scandalo, l’attuale responsabile dell’Istruzione nazionale, dott. Giuseppe Valditara reo di aver elogiato, tre anni fa, ad un convegno di Italia Direzione Nord, l’azione catartica dell’umiliazione quale medicina contro il bullismo. Nonostante il ministro avesse subito specificato in uno scritto (“La cultura dell’umiltà”, la Repubblica del 26/11/’22) il senso di quelle sue parole (“ho usato il verbo al riflessivo: ho detto ‘umiliandosi’, non ‘umiliando-lo’: è il protagonista stesso che si fa umile, non sono gli altri ad umiliarlo”), la nomea di Torquemada gli è rimasta.
Esaminiamole queste ragioni!
Danni al comportamento: “L’umiliazione da punizione – scrive la Saraceno – produce frustrazione, moltiplica i risentimenti, genera avvilimento o risposte violente, attivando un circuito che si autoalimenta e che può diventare infernale”. In altre parole, non solo è inutile, ma è addirittura controproducente: invece di inibire il comportamento da correggere, lo rafforza.
Omettiamo pure l’aspetto riparativo della punizione (il diritto dell’offeso di vedere il suo vessatore giustamente castigato), che non è cosa da poco, e giudichiamo unicamente se è proprio vero che sia così inefficace. C’è una prova regina per stabilirlo! Da anni, proprio per prevenire i comportamenti disturbanti dei giovani, si sono messe al bando le punizioni sostituendole con l’educazione socio-emotiva e la giustizia riparativa, ma detti comportamenti invece di diminuire si sono fatti sempre più assillanti. Cos’altro ci vuole ancora per affermare che certe medicine non sono sostituibili?
Danni all’apprendimento: “Obbligare ad apprendere con la forza (delle punizioni, dei voti, anche solo della marginalizzazione dei non attenti e dei disobbedienti) – scrive la Saraceno – genera noia, rigetto, abbandono”.
“Apprendere giocando” (notorio suggerimento del pedagogismo moderno) è certamente operazione più gradita, ma lo studio e la sua valutazione necessitano di altro che la semplice comprensione: assimilazione, memorizzazione, compiti, interrogazioni, ecc.; tutte cose che comportano fatica e disciplina. E poi, anche le materie più interessanti alla lunga annoiano. I voti sono indispensabili perché si sviluppi nel giovane il principio di realtà: devono essere obiettivi anche se frustranti: il ragazzo sa giudicare e non vuole essere commiserato. Scrive lo psichiatra Paolo Crepet: “Un ragazzo a cui non è stato mai detto di no, un ragazzo che non ha mai dovuto sudarsi niente è un ragazzo infelice … l’assenza di frustrazione non genera felicità, ma noia”.
Danni alla democrazia: “Come ha osservato Gherardo Colombo – scrive la Saraceno in lessico sessantottardo – l’idea che l’umiliazione sia educativa è l’idea che l’educazione si basi sull’obbedienza. Un’idea che corrisponde a un modello di società verticale, dove le regole, come le gerarchie, sono date per scontate. Ma che non corrispondono a una società democratica, in cui le regole della convivenza non sono basate sull’obbedienza sotto minaccia in rapporti asimmetrici, su rapporti di potere, ma sul riconoscimento e cura della pari dignità e libertà di ciascuno, da cui solo possono svilupparsi rapporti di fiducia e di responsabilità condivisa”.
Riemerge qui la visione di don Milani che in un suo scritto del 1965 “L’obbedienza non è più una virtù” afferma la necessità che la scuola educhi cittadini responsabili (“formare in loro il senso della legalità”) e critici (“formare in loro il senso politico cioè la volontà di leggi migliori”), capaci di opporsi all’ingiustizia. Ma si trattava del diritto di disobbedire a gerarchie superiori (la giurisprudenza stessa lo contempla) quando l’atto comandato è manifestamente delittuoso, non quello di disobbedire alle giuste richieste degli educatori. Che la determinazione alla disobbedienza civile sia frutto di una solida cultura non c’è alcun dubbio, ma che per conquistarla sia necessario fare della disobbedienza – come in effetti è successo – il principio cardine della conoscenza critica è una idiozia sesquipedale. Se un teologo come Vito Mancuso ha sentito il bisogno di spiegare “Perché l’obbedienza è di nuovo una virtù” (La Stampa, 3 febbraio) significa che nella scuola, oggi, ci sono delle impellenze ben più urgenti di una pretestuosa difesa della democrazia.
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