Alla porta d'Italia un portiere tedesco
Il giornalista Maurizio Ferrandi ha pubblicato nel nuovo numero della rivista “archivio trentino” un saggio di esemplare chiarezza su Luigi Barzini, per oltre vent'anni “redattore viaggiante” del Corriere della Sera diretto da Luigi Albertini (dal 1899 al 1921) e autore – questo il focus dello studio di Ferrandi – di un prolungato reportage sull'Alto Adige in uno dei suoi passaggi storici cruciali, quando cioè si andavano sgretolando le strutture della prima amministrazione post-bellica e già si annunciavano i nefasti prodromi della dominazione fascista.
Barzini giunge in Alto Adige all'indomani dell'uccisione del maestro di musica di Marlengo Franz Innerhofer (24 aprile 1921) e fotografa a suo modo l'evento della cosiddetta “domenica di sangue” aprendo ai lettori del quotidiano milanese (il più autorevole nel Paese - “circa 800.000 lettori” -, e vedremo subito quale significato assumerà questo dato) la comprensione di una situazione rimasta sino all'ora trascurata dai grandi organi di informazione:
“In quegli anni – ha ricordato Ferrandi presentando lunedì 23 maggio al Centro Trevi il suo contributo – il Corriere della Sera era una vera e propria macchina da guerra e sarebbe difficile sottovalutare l'impatto formativo che i suoi articoli hanno avuto per la mentalità della piccola borghesia nazionale”. Gli articoli di Barzini (spalmati su un periodo di ben quattro mesi) assumono perciò un rilievo assai importante in considerazione della costruzione dell'immagine pubblica dell'Alto Adige nella coscienza collettiva del Paese, condizionandone a lungo la percezione anche in futuro.
Ma quali sono, dunque, i contorni di questa immagine tratteggiata dalla penna di Barzini? Le linee principali risultano essenzialmente due: critica dell'amministrazione post-bellica (avvertita come troppo “indecisa” e comunque incapace di applicare il “legittimo esercizio della sovranità”) e allarmismo geopolitico: se non verranno presi provvedimenti, anche duri, nei confronti dei circoli politici locali, quelli che si raccolgono attorno all'attivismo del Deutscher Verband, ammonisce l'inviato speciale, c'è il rischio di perdere la terra atesina.
A prima vista siamo di fronte ad una posizione che ricorda quella di intransigente “nazionalizzazione” interpretata da Ettore Tolomei. Ma in realtà Barzini rifugge dalla retorica più apertamente sciovinista e proto-fascista del roveretano, limitandosi a considerazioni pragmatiche, di carattere strategico: “Il Brennero segna la nostra vera frontiera, al di qua tutto è Italia, non vi sono che duecentomila tedeschi che sarebbero assai meno se chi nome italiano si considerasse italiano. E' possibile che questo baluardo formidabile non conti più niente, che uno dei frutti più begli [sic] e positivi della nostra gigantesca vittoria sia sacrificato, che la conquista sia perduta, che la porta chiusa si riapra, soltanto perché ci siamo dimenticato di governare pochi tedeschi? Ma contro chi potremmo essere costretti eventualmente a difenderci sul Brennero se non contro al pangermanesimo, l'unico nemico che in un avvenire impreciso potrebbe ancora risorgere armato e avido al di là delle Alpi? E proprio il pangermanesimo noi insediamo padrone in casa nostra, nel punto più delicato della difesa, a governarvi gente nostra e attendere amabilmente l'ora del tradimento? Pensi il Governo alla propria responsabilità”. Un'allusione alla “frontiera da rendere sicura” che oggi appare persino ironica, considerando l'agitazione per l'insicurezza del confine che osserviamo in Austria.
“E' evidente come la politica del fascismo per le zone di confine – così Ferrandi – assuma fin dall'inizio gli argomenti proposti da Barzini, e questo può essere verificato a partire dal primo discorso tenuto da Mussolini in Parlamento, il 21 giugno dello stesso anno”. Toni e accenti che non sfumano neppure a distanza di molti anni, anche quando provengono da protagonisti della vita politica in teoria antitetici rispetto a un'impostazione fascista o anche solo nazionalista.
Ferrandi ha citato a questo proposito il libro di Mauro Scoccimarro intitolato “La crisi in Alto Adige”, pubblicato nel 1960, in cui l'ex partigiano comunista scrive: “Non è per caso, né senza serie e fondate ragioni che il confine d'Italia è al Brennero […] Hanno forse dimenticato i signori che siedono al Parlamento di Vienna, che all'ombra e sotto la tutela dell'europeismo sta oggi risorgendo il militarismo tedesco; che nel corso di una sola generazione l'Italia ha subito due invasioni di eserciti tedeschi, e che per quelli che vengono dalla Germania il Brennero è la porta d'ingresso?”.
Longevità di una metafora (quella della porta d'Italia con un portiere tedesco), dunque, e tema dell'influenza delle parole, di certe parole, sugli stati di cose. Discorso analogo, seppur con minore intensità e con altre prerogative, si potrebbe peraltro fare anche a proposito del libro di Sebastiano Vassalli, “Sangue e suolo”, ma gli anni Ottanta sono già un periodo diverso da quello in cui la carta stampata aveva davvero un impatto micidiale sull'opinione pubblica.