“Non solo bombe, ma violenza quotidiana”
- “Sostieni le proteste violente che sono scoppiate in solidarietà a te e alle altre famiglie nella vostra situazione?”.
- “Sostieni l’espropriazione violenta che coinvolge me e la mia famiglia?”
Il caustico scambio di battute è avvenuto a maggio dello scorso anno. I protagonisti una giornalista della CNN e lo scrittore e attivista palestinese Mohammed El-Kurd residente a Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme est minacciato di espulsione da diversi anni. La zona orientale risulta occupata da Israele, che ne rivendica l’intero possesso, dal 1967. Una decisione non riconosciuta dalla comunità internazionale, Italia inclusa, e che ha dato il via a numerose risoluzioni di condanna da parte dell’Onu, in cui si parla ufficialmente di “apartheid” e tentativi di “pulizia etnica”.
In quel contesto diverse famiglie avevano ricevuto da parte di un tribunale israeliano l’ordine di abbandonare le proprie case in favore di alcuni coloni stranieri. A causa della minaccia di espulsione immediata, un nuovo movimento di protesta è nato a difesa dei residenti storici del quartiere, supportato anche da diverse organizzazioni israeliane di sinistra.
Un movimento diverso da quello che ha caratterizzato le sollevazioni degli anni precedenti, con protagonisti giovani e giovanissimi che sono stati in grado di rivoluzionare, attraverso i social e un linguaggio totalmente nuovo, il modo di raccontare la Palestina, i racconti di chi vi sta resistendo e di chi rifiuta di dover giustificare l’ovvio. I simboli di quel movimento sono diventati Mohammed El-Kurd e la sorella gemella Muna, arrestati durante le proteste e conosciuti sin da piccoli per essere stati i protagonisti del documentario Home Front, in cui un giovane Mohammed si chiedeva perché un americano di Long Island stesse vivendo nella casa di sua nonna, dopo averla cacciata violentemente e ferita durante l’occupazione della sua abitazione.
Per il loro impegno i due fratelli sono stati inseriti nella lista delle 100 persone più influenti dell’anno stilata dal TIME ma a quelle proteste, amplificate anche dagli attacchi e alle provocazioni dei luoghi sacri musulmani, è seguita una drammatica rappresaglia lungo la striscia di Gaza, una porzione di costa lunga 40 chilometri in cui da 16 anni vivono sotto assedio e senza via di fuga oltre 2 milioni di persone. In pochi giorni di bombardamenti si sono registrati 232 morti, di cui 71 bambini e 43 donne.
Cosa è rimasto oggi di quel movimento? Ha ancora senso parlare di soluzione a due stati? Perché nonostante decenni di condanne da parte della comunità internazionale le violazioni dei diritti umani continuano a procedere impunite?
Ne parliamo con Mohammed El-Kurd, ospite a Ferrara in occasione dell’ultima edizione del Festival di Internazionale.
salto.bz: El-Kurd, nonostante le proteste a Sheikh Jarrah continuino tutte le settimane non si parla più di quel grande moto di protesta che ha scosso l’opinione pubblica internazionale e stroncato dai drammatici bombardamenti lungo la Striscia. Che cos’è rimasto di quel movimento?
Mohammed El-Kurd: Oggi quella mobilitazione si è spostata su un altro caso di pulizia etnica, ovvero quella che si sta registrando a Masafer Yatta, dove centinaia di persone che hanno vissuto per decadi e generazioni su quelle colline a sud di Hebron, sono a rischio espulsione perché Israele ha decretato unilateralmente che quella è zona militare. L’ordine di demolizione dei villaggi è stato firmato da un giudice israeliano residente egli stesso in una colonia illegale. A Sheikh Jarrah le proteste continuano ma è fisiologico che un movimento abbia un’esplosione dettato dall’urgenza, in quel caso la minaccia immediata di espulsione forzata da parte dell’esercito israeliano a danno di decine di famiglie palestinesi residenti a Gerusalemme Est.
Sia il movimento nato a Masafer Yatta sia quello che avete portato avanti a Sheikh Jarrah hanno escluso il protagonismo dei principali partiti palestinesi che hanno egemonizzato le precedenti sollevazioni. Per questo alcuni analisti concordano che il lancio di alcuni razzi dalla Striscia verso Gerusalemme, per quanto pressoché inoffensivo, fosse un tentativo del gruppo Hamas, la fazione che dal 2007 governa su Gaza, di riprendere il controllo del conflitto. Lei è d’accordo con questa visione?
Partiamo dal fatto che Gaza è un prigione a cielo aperto. Due milioni di persone vivono sotto assedio. Non dispongono di cure basilari. Non hanno accesso ad acqua pulita ed elettricità. Ogni giorno escono report in merito alle miserabili condizioni di vita a cui sono sottoposti. Dobbiamo stare attenti a non normalizzare una crisi umanitaria. Diciamo che a Gaza non hanno bisogno di un pretesto per protestare e resistere. Per questo credo che questa analisi non sia corretta.
Le scorse settimane, il premier israeliano Yair Lapid ha riferito in sede alle Nazioni Unite di supportare la soluzione a due stati. Qual è il senso di tali dichiarazioni in questo momento storico? È davvero una strada ancora percorribile?
Qualsiasi cosa dica Lapid,o Nethanyau che sia, questi annunci non significano niente né per me né per i palestinesi. Mentre il premier israeliano blatera di soluzione a due stati ci sono i suoi bulldozer che demoliscono le case in Cisgiordania per fare avanzare gli insediamenti illegali.
Westbank non è più uno spazio fisico, è frammentato e inglobato dagli insediamenti israeliani che l’hanno circondato. A volte ironizzo riportando una frase che è riuscito a pronunciare persino qualcuno come George Bush, ovvero che “la Palestina merita un territorio che non assomigli a un formaggio svizzero”. Ecco, questa rimane la metafora migliore in grado di rispondere al perché la soluzione a due stati non è un qualcosa a cui si può credere veramente.
Non c’è nessun desiderio a cambiare lo status quo
Lo scorso agosto Israele ha bombardato ancora una volta la Striscia di Gaza. Persino i giornali israeliani parlavano di un pretesto strumentale alla campagna elettorale dell’attuale primo ministro centrista, che doveva rispondere alle pressioni provenienti dall’ala di estrema destra. Tale “gioco” si è concluso dopo tre giorni con 45 morti, di cui 15 bambini, e centinaia di feriti. Un'escalation che è stata pressoché ignorata dalla comunità internazionale. Possiamo dire che il danno è talmente grande che siamo riusciti a normalizzare completamente sia uno stato di assedio sia la guerra contro i civili?
La questione non è che il danno sia troppo grande da essere diventato irreparabile. Piuttosto io credo che la questione sia un’altra ovvero che i governi europei, la comunità internazionale, siano coinvolti e stiano investendo su questo progetto coloniale proprio perché essi stessi ne traggono beneficio. Basti pensare agli affari energetici e al controllo strategico del Medio Oriente. Non c’è nessun desiderio a cambiare lo status quo. Ragazzini di 15 anni a Gaza non hanno mai vissuto un giorno al di fuori dell’assedio ma hanno subito sulla loro pelle già quattro guerre. Ora missili e bombe vengono fatti passare come un’anomalia ma la verità è che i palestinesi si interfacciano con la violenza ogni giorno, non serve essere bombardati. Vivere sotto assedio, interfacciarsi con un blocco di terra, mare e aria è violenza. Non avere la possibilità di studiare al di fuori della Striscia è violenza. La mia amica di Gerusalemme che ha tutta la sua famiglia a Gaza e non si possono fare visita a vicenda, è violenza. Un pescatore di Rafah che non può pescare lungo la costa perché la flotta israeliana occupa e controlla le acque territoriali palestinesi, anche questa è violenza. Ma qui non ci sono solo le bombe, non ci sono solo gli arresti e gli spari. La violenza di un’occupazione militare si manifesta nella sua semplice normalità quotidiana.
Un bambino di 7 anni è morto d’infarto i giorni scorsi perché terrorizzato da dei militari che lo stavano inseguendo
Per esempio?
La distanza tra Gerusalemme e Betlemme è di circa 10 chilometri. Per coprirla basterebbe un viaggio di15 minuti. Noi dobbiamo calcolare queste distanza aggiungendo qualche ora in più per poter passare i check point dell’esercito. Ci sono intere famiglie scomparse dai registri pubblici a causa dei massacri compiuti. Ci sono giornaliste di fama internazionale uccise durante il loro lavoro. Un bambino di 7 anni è morto d’infarto i giorni scorsi perché terrorizzato da dei militari che lo stavano inseguendo. Un bambino di 7 anni morto di paura, possiamo immaginarlo? Stiamo parlando di uno stato che ha classificato sei associazioni per i diritti umani organizzazioni terroristiche. Le scuole palestinesi sono costrette ad applicare il programma scolastico approvato dall’Occupazione, ripulito dalla storia e di ogni elemento scomodo. Se ci fosse davvero un interesse da parte della comunità internazionale nel tutelare i diritti avremo visto dei cambiamenti e invece quando si pensa che ci possa essere un limite impossibile da varcare, puntualmente quella soglia viene superata in brutalità. Fino a dove si spingeranno? Quanti bambini massacrati devono comparire ancora sugli schermi televisivi?
Alcuni anni fa lo strumento che veniva utilizzato per esercitare pressioni politiche era quello del boicottaggio. Può ancora rivelarsi un dispositivo utile per il raggiungimento di questi obiettivi?
Sì assolutamente. Le campagne più note sono quelle portate avanti dal BDS che negli anni si sono rivelate un importante strumento di lobby economica. Ci sono molte altre cose che si possono fare.
Per esempio, gli studenti universitari possono informarsi sui tipi di partenariati portati avanti dal loro dipartimento con le facoltà israeliane e cominciare a esercitare pressioni a riguardo.
Qual è l'appello che rivolge alla società civile europea?
Di mettersi al lavoro e fare pressioni a livello locale. Guardarsi indietro, controllare se i propri comportamenti o abitudini contribuiscono a rafforzare l’apartheid, che sia all'interno della tua comunità di riferimento o sul tuo posto di lavoro. Abbiamo bisogno che le persone facciano di più, che non si limitino a conservare le informazioni sulle ingiustizie e le violenze nel silenzio delle loro menti. O limitarsi alla tristezza quando sentono parlare della difficile situazione dei palestinesi per ottenere giustizia. Non mi aspetto nessuna azione miracolosa, specie da parte della comunità internazionale, ma questo non ci esula dal provarci
Dieses Interview ist
Dieses Interview ist natürlich eine einseitig ausgelegte palästinensiche Propaganda. Die Lage der Palästinenser könnte weit aus besser sein, wenn sie bereit wären mit Israel zusammenzuarbeiten und deren legitimen Sicherheitsinteressen zu beachten.
Den Tod von Kinder anszusprechen ist eine der größten Heucheleichen, werden doch Kinder systematisch von der palästinensichen Propagandamaschine als Bauernopfer verwendet, um die Bemühungen Israels die palästinensiche Bevölkerung weitestmöglichst zu schonen zu untergraben. So werden bei Protesten an Sicherheitsposten Kinder mitgenommen und in Kauf genommen, dass diese verletzt oder getötet werden. Es wird das sogar bewußt provoziert um dies propagandistisch auszuschlachten zu können.
Als Israel sich vom Gaza-Streifen 2005 zurückzog und israelische Siedler zwangsevakuierte, kam es dort zu einem Bürgerkrieg zwischen Hamas und Fatah. Dies zeigt dass Palästinenser nicht in der Lage sind eine funktionierende Zivilgesellschaft auf die Beine zu stellen und dass es für Israel ein undankbares Unterfangen ist, mit den Palästinener einen Weg zu finden ihre Lebensumstände zu verbessern ohne die Sicherheit Israels auf dem Spiel zu stellen. Seit 1967 hat sich die Bevölkerung versechsfacht. Mit so einer Bevölkerungexplosion ist es für jedes Land schwer den Lebensstandard auf einer begrenzten Fläche zu halten, geschweige denn zu verbessern.
Europa kann von Israel lernen, wie man mit Menschenmassen umgehen kann, die feindselig gegen über westlichen Werten und Erungenschaften stehen, aber gerne dessen Früchte plündern würden.
Hier noch die Sichtweise des israelischen Sicherheitsexperten Daniel Schueftan:
https://youtu.be/b6pNMUJhNb8
https://youtu.be/VNTM_xmFdZE