“Non occidentali, ma libere”
Il tragico femminicidio della diciottenne pakistana Saman Abbas ha riportato alla ribalta il problema mai affrontato dei matrimoni forzati, da una parte strumentalizzato in chiave razzista e dall’altra maldestramente maneggiato, se non del tutto ignorato, da una sinistra priva di strumenti politici e culturali. Tiziana Dal Pra, attivista per i diritti delle donne e “femminista non pentita”, come ama definirsi, ha fondato a Imola l’associazione Trama di Terre, da anni impegnata a proteggere chi dall’oppressione si ribella, tessendo azioni e relazioni dove finalmente, la donna, diventa il punto del suo baricentro. Esistenze e resistenze raccolte nel libro Libere. Il nostro NO ai matrimoni forzati presentato a Bolzano durante la giornata internazionale delle donne.
salto.bz: Tiziana, quando ha cominciato ad interessarsi del tema dei matrimoni forzati?
Tiziana Dal Pra: Ho cominciato molti anni fa, attraverso alcuni corsi di italiano per donne migranti. L'incontro con le problematiche di donne provenienti da altri Paesi ci ha permesso di conoscere le lacune in materia di diritti umani dei luoghi di provenienza e, allo stesso tempo, di prendere consapevolezza su quello che non funzionava nel nostro Paese e abbiamo così deciso di unirci per intraprendere una lotta comune. Quest’alleanza ha gettato le fondamenta della nostra associazione, nata nel 1997 su iniziativa di 14 donne, di cui cinque di provenienza straniera. In quell’anno abbiamo inaugurato la nostra sede, che opera dal 2000 come Centro interculturale delle donne nel cuore della città di Imola. Nel 2006 lavoravo come formatrice in giro per l'Emilia Romagna, da Carpi a Novellara, oggi punti molto caldi dopo l’uccisione di Saman Abbas. In quel contesto ho cominciato a raccogliere testimonianze da parte di operatori scolastici, vigili, istituzioni e singoli di diversa natura che dicevano che durante l'estate scomparivano delle ragazze che non tornavano più a scuola l'anno dopo. Da questi spunti è iniziata una ricerca strutturata, sostenuta dalla Regione Emilia Romagna, che ha prodotto due anni dopo la prima indagine regionale sui matrimoni forzati. Se prima c’era il timore, quel giorno avevamo avuto la conferma: nel 2008 sono emersi 38 casi di sparizioni improvvise nel solo territorio regionale. Il primo passo è stato dunque indagare sui matrimoni precoci, che nel mondo toccano circa 12 milioni di bambine. In Italia questo fenomeno non emerge, mentre invece sussiste il grave problema dei matrimoni forzati, che coinvolgono soprattutto giovani ragazze tra i 16 e i 18 anni che vivono qui da più o meno tempo, da non confondere in ogni caso con quelli combinati.
Quali sono le differenze?
I matrimoni precoci identificano un'età molto bassa e coinvolgono le cosiddette spose bambine. Quando nominiamo i matrimoni combinati o forzati parliamo di pratiche che generalmente rispettano la legge dei paesi in cui avvengono. Nel primo caso, non si può parlare di un’adesione totale ma viene generalmente accettato da molte ragazze perché pensano che la famiglia possa decidere la cosa migliore per loro. Lo vediamo soprattutto in India e Pakistan, in una dimensione di caste elevate. Diversissimo è il matrimonio forzato che viene imposto con metodi violenti che, come abbiamo visto, possono arrivare fino al femminicidio. Un fenomeno terribile che porta a uno stupro durante la prima notte di nozze e continua con una serie di tragiche forzature che la sposa è costretta a subire contro la propria volontà.
Quando siete riuscite a denunciare che anche in Italia esiste questo fenomeno che tipo di azioni sono state intraprese?
Si è fatto molto poco. In questo momento sono due le regioni altamente a rischio, ovvero Lombardia – in tutta la parte bresciana – ed Emilia Romagna, dove abbiamo già avuto due ragazze uccise. La settimana scorsa durante una presentazione a Mantova una ragazza è intervenuta, ricordando che a undici anni la compagna di classe di sua sorella scomparve e fu trovata uccisa a 16 anni perché rimasta incinta. Per questo motivo fu arrestato il padre e quando i bambini, sconvolti, chiesero a scuola come fosse potuta accadere una cosa del genere, l’insegnante rispose semplicemente che questo succede perchè è la loro cultura. Dobbiamo stare attenti a questa parola, cultura, finta e svuotata ormai di significato. Le culture, non sono un monolite ma sono in continua evoluzione. È il patriarcato a non cambiare mai. Eppure dietro alla parola cultura si nasconde tantissimo timore da parte dei politici, dei servizi sociali, della polizia, e persino della scuola che non è in grado di prendere e trasmettere una posizione corretta nemmeno in casi così drammatici.
La vostra associazione ha voluto costituirsi parte civile nel processo contro gli imputati del femminicidio di Saman Abbas, un delitto amplificato dalla destra in chiave xenofoba ma che al tempo stesso è stato ovattato da un’ala più progressista per timore di essere accusata di razzismo e islamofobia. Di quali strumenti possiamo dunque dotarci per aggiornare la nostra cassetta degli attrezzi al fine di interpretare meglio questi fenomeni e ripulire la narrazione mediatica che ne consegue?
Su Saman Abbas si è detto di tutto, ma al tempo stesso non si è detto niente: si è raccontato dove viveva la famiglia, che l'ha promessa in sposa a un cugino, mentre lei voleva essere all’occidentale… bene è ora di toglierci per sempre questa frase dal cervello: le ragazze non vogliono essere occidentali, vogliono essere libere, così come ho voluto esserlo io, anni fa, all’interno di un Veneto fondamentalista cattolico. Queste ragazze non sono stupide, hanno un cervello, e quando scoprono che esiste la possibilità di scegliere allora giustamente scelgono. Alla fine dei conti Saman non esiste per nessuno. Chi è? Chi sa la sua storia? Chi parla dell'invisibilità di queste ragazze, di ricongiungimenti familiari che le fanno arrivare come stracci legati a un parente. Chi parla di quelle donne, come la madre di Saman, se non quando le definiamo assassine, quando hanno subito, forse, una vita ancora peggiore per trovarsi poi relegate a fare da guardiane all'onore e alla verginità delle figlie? Nella narrazione mediatica che si è montata, non si è nemmeno esaltata più di tanto la parte islamofoba. Nemmeno nel libro le ragazze si soffermano più di tanto sull'islam e la religione. Questo non perché le religioni, tutte, non siano una una stampella del patriarcato ma perchè quello che manca – ed è mancato anche nel caso di Saman – è la capacità di analisi, di studio, di assunzione di responsabilità.
Si spieghi meglio
Da un lato la destra ha sicuramente cavalcato determinate situazioni per trasformarle in campagne razziste, ma dall'altro abbiamo assistito all'assoluto silenzio di quella parte definita progressista, che non prende parola nemmeno quando subisce, in quanto priva di strumenti. Brescia è una città governata dal PD, l'Emilia Romagna è governata da un partito di cosiddetto centrosinistra. Perchè lì nessuno dice niente? Di cosa hanno paura quando è l’Onu stessa a lanciare l’allarme per certi fenomeni? È assodato che in paesi come l'Afghanistan, il Bangladesh, il Pakistan, l'India la violenza contro le donne sia un fenomeno radicato e sono le stesse organizzazioni LGBT+ e femministe locali a ricordarcelo e sbatterci in faccia la nostra ipocrisia occidentale che per paura ci fa tollerare l’intollerabile. Ad Ontario, in Canada, era stata autorizzata l’applicazione della sharia nelle controversie civili, quando attiviste e attivisti, pensiamo a RAWA in Afghanistan continuano a pagare con la vita mentre ci ricordano che il fondamentalismo religioso è nient’altro che fascismo. Dobbiamo rimettere i diritti umani al centro. Se una donna proviene da una situazione di violenza e segregazione e, una volta arrivata (o portata) qui, vive la stessa situazione di invisibilità significa che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di relazionarci con le comunità straniere. Noi dobbiamo spogliarci di questa paura di essere giudicati razzisti e islamofobi e trasformarla in un dialogo vero. Per farlo non possiamo sempre interfacciarci solo con gli uomini, ignorando le donne e i bambini salvo poi chiedersi chi fossero quando scatta una tragedia. Io ho impiegato tanti anni a liberarmi di questa paura e a insegnarmi sono state proprio le donne, a cui non va indicato come devono essere ma mostrati loro i diritti che possono rivendicare, perché il femminismo non è un tribunale. L’invisibilità comporta che tantissime donne non concepiscano nemmeno la possibilità di potersi separare, rifiutare matrimoni telefonici o tutte quelle pratiche inconciliabili con un qualsiasi stato di diritto.
Di cosa stiamo parlando dunque se pensando di rispettare la cultura altrui stiamo in realtà praticando una violenza continua e stravolgendo i rapporti familiari generazionali?
La Provincia di Bolzano ha promosso una legge molto discussa che vincola l’erogazione degli assegni familiari al superamento dell'esame di lingua e cultura locale per entrambi i genitori. Come poter perseguire questa missione senza arrogarsi di una pretesa “civilizzatrice” calata, per giunta, all’interno di un contesto ricattatorio?
Io credo sia sbagliatissimo che uno Stato dica “se tu non impari io non ti do più soldi, sostegno casa e reddito minimo”, che dovrebbero essere garantiti a tutti a prescindere. Ma sulla conoscenza della lingua, per esperienza, io la vedo diversamente in quanto requisito fondamentale per accedere ai diritti. Come potrebbe una donna uscire di casa se non sa dire niente, se non sa il valore dell'euro se non sa che bus prendere, non sa leggere o dialogare con un insegnante? Durante il dibattito a Bolzano si è toccato proprio questo punto. Una mediatrice iraniana ha raccontato la sua esperienza quando non potendo tradurre a una donna fuoriuscita da una situazione di violenza che soffriva di cancro all’utero, a doverlo fare è stato il figlio maschio di nove anni. Di cosa stiamo parlando dunque se pensando di rispettare la cultura altrui stiamo in realtà praticando una violenza continua e stravolgendo i rapporti familiari generazionali? Se io costringo un bambino di nove anni a tradurre alla mamma cose di questo tipo sono io la razzista perché è quella donna che dovrebbe avere la possibilità di parlare con il suo medico o la sua psicologa dei suoi problemi.
Il sistema welfare e i meccanismi che regolano l’accesso a forme di accoglienza per richiedenti protezione internazionale hanno tuttora una connotazione fortemente familistica. Rivendicazioni provenienti dalla galassia antirazzista e femminista chiedono da anni di superarli per mettere al centro la persona. Cosa ne pensa?
Il ricongiungimento familiare è stato il movimento nel mondo e pertanto deve continuare ad esistere. Io credo tuttavia che la giurisdizione debba essere rivista. La messa in discussione di questo sistema è cominciata a seguito della gravità delle situazioni che si sono generate. Fino a pochi anni fa, alle donne che sbarcavano sulle nostre coste non veniva chiesto nulla di personale. A parlare era l'uomo e in seguito a ciò la donna veniva indirizzata come “moglie di” o “figlia di”. Sono emersi casi di donne che per mesi hanno vissuto in un centro non con il marito ma con il violentatore per il semplice fatto che nessuno, a loro, aveva mai chiesto nulla. Abbiamo cominciato a interrogarci sul significato e sulle conseguenze di un permesso di soggiorno legato al ricongiungimento familiare, dove vieni riconosciuta esclusivamente in quanto moglie, madre o figlia di qualcuno e mai in quanto persona. Anche quando si fanno leggi ad hoc per superarne le falle, il sistema non viene messo in discussione. Il 18 bis dice che se una donna irregolare denuncia la violenza all'interno della famiglia, noi siamo così buoni da concedere un permesso di soggiorno slegato, che però dura poco tempo. Oppure, più recentemente, la proposta di legge nata proprio sulla spinta di Saman che vuole concedere un permesso di soggiorno alla ragazza che denuncia il sistema di oppressione, anche in questo limitato e rinnovabile solamente a certe condizioni. Per cui le donne esistono sempre in funzione di categorie prestabilite, attorno alle quali vengono fatte occasionalmente alcune concessioni. Io credo invece che a cambiare debba essere il paradigma. I comuni, per esempio, nei momenti dell'accoglienza dovrebbero avere un ufficio in cui la donna si presenta e viene ascoltata. Noi abbiamo accolto donne che dopo essere state stuprate in gruppo in Libia non potevano più abortire perché nessuno aveva chiesto loro niente. E una volta arrivate in accoglienza era troppo tardi per tutte le loro scelte. Non riusciamo ancora a vedere queste donne come persone titolari di diritti complessivi all’esistenza e alla scelta, ma sempre come un'appendice di qualcosa.
Non sono tempi facili per i diritti, soprattutto per i diritti delle donne. Cosa si porta a casa da questo 8 marzo appena trascorso?
Girando molto con questo libro sto vedendo molta più sensibilità, molto più ascolto, e volontà di capire. Sto assistendo allo sdoganamento da certe logiche relativiste. Dobbiamo ritornare al filo che nel 66 iniziò Franca Viola che ha mostrato che si può parlare anche da sole e intraprendere una battaglia. Lei la fece, permettendo di superare il matrimonio riparatore e aprendo a tutto quello che avvenne dopo perché lo fece sì da sola, ma fu poi raccolto da una collettiva di donne. Franca Viola viveva in un paese siciliano, governato da logiche mafiose e patriarcali, le stesse di cui sono vittime oggi le ragazze come Saman. Da queste giornate ci portiamo dunque a casa un’apertura molto grande. Non è solo una speranza, io lo sento che alcune cose stanno già cambiando.
Il tragico femminicidio della
Il tragico femminicidio della diciottenne pakistana Saman Abbas ha riportato alla ribalta il problema mai affrontato dei matrimoni forzati, da una parte strumentalizzato in chiave razzista e dall’altra maldestramente maneggiato, se non del tutto ignorato, da una sinistra priva di strumenti politici e culturali.
Si possono criticare i costumi imporatati da immigranti con o senza toni xenofobi e/o razzisti. Cosa non è possibile che questi vengano criticati in modo efficace dalla sinistra in quanto dovrebbe andare contro i narrativi che sostengono la propria ideologia. E piùtosto di ripensare la proprio posizione, preferiscono a rinunciare a affrontare in modo efficente ed esaustivo questi fenomeni.