La Rivoluzione dimenticata
«I media europei hanno lo sguardo altrove, ma la protesta delle donne in Iran continua», dice Shida Galletti, studiosa bolzanina di origini iraniane. «Gli storici sono concordi nel definirla una rivoluzione, è da settembre che va avanti, oramai coinvolge tutti gli strati della società, tutte le etnie».
Una decina di giorni fa a Isfahan – oltre 2 milioni di abitanti – la popolazione è insorta riversandosi nelle strade, bloccando il traffico: sui social era trapelato che tre persone sarebbero state condannate a morte per impiccagione. «L'indomani, la notizia si è sparsa a macchia d'olio assieme al messaggio di fare qualsiasi cosa per salvarle», racconta Galletti, spiegando che «il disagio arrecato alle autorità è stato tale che le esecuzioni hanno subito un ritardo di due giorni».
Questo per dire quanto la gente senta propria «la battaglia, perché non è più una questione di difendere un settore della popolazione, ma quello di dire a voce alta che i diritti civili fondamentali sono di tutti». Il Paese è grande quanto mezza Europa – «il 18° al mondo per estensione» – eppure si parla poco di quanto sta succedendo.
Europa distratta
«Le esecuzioni continuano», prosegue Galletti, facendo notare che «c'è sempre un calo dell'attenzione quando le cose si protraggono per troppo tempo». Decine le condanne a morte portate a compimento ogni settimana, da gennaio; 580 solo nel 2022, «stando ai dati ufficiali dell'ONU». Numerosissimi i processi sommari.
Laureata in giurisprudenza a Milano, un dottorato in diritto comparato, e studi alla UCL di Londra, Galletti è da sempre attenta a quanto accade nella terra dei suoi nonni, emigrati da Teheran a Venezia a metà anni '60 e trasferitisi nel '73 a Bolzano. Il nonno, ingegnere, era titolare di un negozio di tappeti persiani in via Rosmini. «Con la Rivoluzione Islamica del 1979 cambiò tutto e i nonni decisero di rimanere qui, sempre riconoscenti all'Italia, che ha permesso loro di continuare a vivere in libertà».
La nostra interlocutrice asserisce di sentire «profonde queste origini», di avvertire la lacerazione vissuta dagli avi nell'aver visto confiscati tutti i beni di famiglia, «famiglia che lì era comunque benestante ma che dall'oggi al domani siccome apparteneva alla minoranza religiosa Baha'i fu costretta all'esilio».
Le dissidenti
«Mia nonna», racconta Galletti con uno speciale brillio negli occhi, «venuta a mancare lo scorso anno, mi raccontava come la loro casa, con i suoi cuscini e tappeti che invitavano a sedersi per terra, era divenuta il punto di riferimento della controcultura bolzanina». La quale orbitava attorno ai Dawn Breakers, gruppo musico-teatrale che cinquanta, sessant'anni fa girava tutte le piazze d'Italia, partendo da Bolzano, «per sensibilizzare la popolazione circa i temi dell'unità del genere umano, dell'abolizione dei pregiudizi, della parità dei diritti fra uomo e donna, dell'armonia tra scienza e religione».
Libertà, quella goduta in Italia dall'ingegnere esule e famiglia, che in Iran è ancora un miraggio, appannaggio di pochissimi privilegiati, dirigenti che nascondono soldi all'estero, che mandano i figli a studiare altrove (alcuni cominciano persino a «chiedere asilo e il Venezuela è stranamente fra quelli che lo concede»). L'intero Paese è scosso dalle proteste e il potere trema.
Nascere donna lì rimane una vera sfida. La più alta. Masih Alinejad, dissidente e attivista iraniana, rilasciava giorni fa a iO Donna del Corriere della Sera le seguenti parole di monito, rivolte a tutti noi: «Le donne iraniane stanno facendo la loro parte a costo della propria vita, il bene prezioso a cui la coraggiosa Mahsa Amini, picchiata a morte a causa della mancata osservanza dell'obbligo dell'hijab, ha dovuto rinunciare. Perché finché i governi occidentali riconosceranno, parleranno e faranno affari con la Repubblica islamica, finché l'opinione pubblica europea accetterà questa complicità, non ne usciremo».
Alinejad, una delle donne del 2022 per Time, in esilio da tredici anni negli USA, è sfuggita lo scorso luglio a un tentativo di rapimento da parte di un commando criminale dell'Est Europa. «Hanno agito per conto dell'Iran», asserisce la candidata al Nobel per la pace che incoraggia le donne mediorientali a togliere il velo per emanciparsi dalle vessazioni.
«Velo che non è più un simbolo religioso», secondo la studiosa altoatesina, «ma politico. Soprattutto in Iran dove la maggioranza è sciita, dove non c'era questa forte visione del velo, non c'era mai stata, prima del '79 era comunque un Paese a maggioranza islamica e il velo non era sentito come un'esigenza», è piuttosto un simbolo dell'autorità, «della forza con cui il regime riesce a controllare la popolazione». Cedere su questo significa non poter più controllare il pensiero, la libertà d'espressione.
Il braccialetto
Nella direzione opposta ad Alinejad ha viaggiato invece Roxana Saberi, cittadina irano-statunitense, di padre iraniano, nata e cresciuta in America. Siamo nel 2009, Saberi – inviata per importanti network internazionali (Bbc, Fox) – viene imprigionata con l'accusa di spionaggio a Evin, lo stesso carcere di massima sicurezza dove la fotoreporter irano-canadese Zahra Kazemi è morta nel 2003.
La condanna inflitta a Saberi: otto anni. Ma ecco che il mondo intero si mobilita per lei. L'attivismo indefesso di Amnesty International e Human Rights Watch porta alla sospensione della pena; la reporter lascia il carcere nel maggio 2009. Il suo libro Prigioniera in Iran (Newton Compton, 2010) rievoca i mesi trascorsi a Evin e gli incontri con le dissidenti politiche, fra le mura del famigerato penitenziario. «Resistenti, ma non invelenite», le descrive Saberi, donne che sapevano far forza a tutte le altre là dentro. Una bussola morale.
Saberi indossa tutt'ora un braccialetto fatto con le lenzuola della cella; regalo di Mahvash Sabet, la prigioniera più anziana, ancora adesso reclusa e all'epoca quasi settantenne, arrestata unicamente per la sua appartenenza religiosa, in quanto membro attivo della comunità baha'i iraniana; curiosamente, un precetto della sua religione è proprio quello di obbedire alle leggi dello Stato, non di sovvertirlo. E difatti Sabet, così si racconta, di politica non ne ha mai voluto sapere. «Porto questo braccialetto – spiega Saberi – perché mi è stato chiesto di non dimenticarmi mai, in quello che scrivo e faccio, di queste persone a cui non viene data voce».
Poesie rivoluzionarie
Quella di oggi è una rivoluzione che parte da lontano. Galletti racconta che nel 1848 la poetessa Táhirih si tolse per prima il velo scatenando l'ira del pubblico: «Lo aveva fatto non tanto per mancare di rispetto a un simbolo religioso, ma per segnare la divisione tra un passato retrogrado e l'inizio di un'epoca di parità di diritti. Voleva che tutte le donne imparassero a leggere e scrivere». Così come aveva potuto fare lei: di famiglia nobile, aveva studiato con il padre che le permetteva di frequentare la sua scuola per maschi da dietro una tenda.
A quei tempi la Persia era governata dispoticamente da un re, che aveva il diritto di vita e di morte sulla popolazione – un po' come adesso. Táhirih intendeva l'istruzione come arma di emancipazione dal giogo della tirannide. Insegnava a leggere a tutte le donne che poteva. Imprigionata, fu giustiziata a 35 anni con il velo al collo. Prima di spirare disse: «Non fermerete l'emancipazione delle donne».
Le sue poesie sono lette ancora oggi. Hanno una forte valenza sovversiva. Edward Granville Browne, iranista britannico, disse più di un secolo fa che «la storia di Táhirih farebbe scalpore ovunque; che si tratti poi della Persia di metà '800 ha qualcosa di miracoloso». Una vicenda che fu l'innesco di una congiuntura storica davvero particolare. In Austria ne è stata fatta recentemente una drammatizzazione, che Galletti vorrebbe portare a Bolzano avendo appurato qui in città un certo interesse («sono in contatto con gli organizzatori di Vienna», fa sapere).
Il suo carisma e le sue conoscenze hanno reso Táhirih un modello per molti movimenti femminili; incluso quello iniziato da Marianne Hainisch, pioniera nella realizzazione della parità di diritti tra uomini e donne, nonché madre del primo presidente austriaco. Aveva subito saputo di Táhirih, che aveva rimosso il velo in pubblico. «Spero di fare per le donne dell'Austria quello che Táhirih ha fatto per le donne in Iran», disse Hainisch.
Parole di centocinquant'anni fa. «Interessante», evidenzia Galletti, «nonostante la repressione e l'assenza di mezzi d'informazione come quelli di oggi, il messaggio di speranza di Táhirih era lo stesso giunto in Europa; di una forza dirompente. E il testimone è passato alle giovani e ai giovani di oggi».
Che fare?
Non dimentichiamo che l'Iran è tutt'oggi altamente alfabetizzato. Spesso le rivolte sono iniziate in ambito universitario; il 60 per cento delle donne è iscritta a un ateneo. «Adesso che le autorità vedono movimenti di protesta di vaste proporzioni, hanno deciso di reprimerli», osserva l'esperta in diritto. Finché erano pochi individui a ribellarsi si lasciava correre. Repressione che non avviene solo nelle strade ma anche nei luoghi del pensiero, in primis quelli dell'istruzione e della cultura. Solo nel 2018, i guardiani della rivoluzione gettavano studenti dalle finestre.
Cosa possiamo fare noi? «Cominciare un processo di educazione. Verso gli adulti, verso i bambini. Capire che siamo tutti parte di un'unica umanità. Quando soffre una parte della comunità, soffrono anche gli altri», afferma convinta. «Lo abbiamo visto con la pandemia. Lo stiamo sperimentando con la guerra in Ucraina che sembrava lontano e invece ora vediamo che tocca anche noi: il prezzo dei beni di prima necessità, ecc. Tutto il contesto attuale ci sta spiegando con le cattive, che non è più il tempo dei villaggi, delle città, delle nazioni».
Siamo arrivati a un altro stadio della civiltà umana, percui dobbiamo considerarci cittadini del mondo, abitanti di un unico pianeta. «Quindi anche le vicende del Medioriente, che non è così lontano, ci riguardano. Possiamo, dobbiamo rimanere sensibili», esorta Galletti. «L'Iran non sta chiedendo una raccolta di fondi; sta chiedendo una sensibilizzazione verso i diritti umani. Ogni volta che abbiamo preso a cuore questi temi, il regime ha avuto paura – sono effetti quindi che si riverberano direttamente nelle stanze del potere. Il cittadino può fare molto di più di quello che possono fare le istituzioni, la cui azione spesso sottostà a legami politico-economico che né io né te sappiamo».
Non possiamo influenzare ciò che viene discusso ai tavoli internazionali o nelle cerchie dell'alta diplomazia, è la conclusione della studiosa, «però possiamo dare il nostro contributo a influenzare l'opinione pubblica. Dobbiamo capire e cercare di differenziare, creare così un'opinione pubblica forte: credere di poter fare nostre queste cause; la gente lì è gente normale, non sono esponenti di spicco che hanno iniziato questa rivoluzione, percui questo è anche il pericolo per il regime: le proteste si sono diffuse a macchia d'olio, non hanno una testa, ma tante teste, e più c'è il supporto di ondate di proteste, anche dall'occidente, e più si concretizza la possibilità di eliminare gli abusi. Così si sostiene l'Iran. Un Iran libero è anche a nostro vantaggio».
Russia e Cina, tuttavia, stanno col regime di Teheran. Che fare? Galletti: «Parlare di stati e nazioni, e quindi di geopolitica è importante; si corre però il rischio di deresponsabilizzare l'individuo e la cittadinanza, perché vorrebbe dire che siccome le decisioni vengono prese ai piani alti, io non posso influire in nessun modo. E invece, come in tutte le cose, da quello che consumiamo a quello che facciamo, che diciamo ai nostri figli, a come li educhiamo nei confronti del diverso, del compagno di classe che viene da un altro Paese, be', tutto aiuta. Quando le persone si uniscono si vedono gli effetti. Da solo sei una goccia».
Gut, dass daran erinnert wird
Gut, dass daran erinnert wird. Bei uns sind ja v.a. die Klimakleber medial präsent. Auch was in Afghanistan unter den Taliban passiert ist kein Thema mehr. Es ist eben nichts älter als die Zeitung von gestern - leider.