Kultur | Francesca Melandri

Francesca Melandri, Piedi freddi

Nell’ultima opera di Francesca Melandri, intitolata Piedi freddi, le memorie del padre sulla “Ritirata di Russia” aiutano a comprendere l’aggressione russa dell’Ucraina, mentre l’attuale guerra in Ucraina getta nuova luce su quegli eventi di ottant’anni fa.
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Copertina di "Piedi freddi"
Foto: Free
  • Piedi freddi, l’ultima opera di Francesca Melandri, non è un romanzo, ma si legge come un romanzo. L’espressione sempre chiara e precisa, l’utilizzo limitato ma illuminante delle metafore, la sapiente alternanza di racconti e di riflessioni storiche, culturali e politiche, la fitta trama di rimandi interni, di riprese di determinate espressioni e di specifiche tematiche, ne fanno infatti una lettura appassionante e coinvolgente. Per quanto riguarda l’appartenenza a un genere letterario, si tratta di una lunga lettera al padre, in cui l’autrice firma in calce con i suoi sei nomi di battesimo quello che è stato definito il “patto autobiografico”. L’opera nasce evidentemente da una doppia necessità esistenziale dell’autrice: da una parte quella di cercare di comprendere la figura del padre e in particolare il suo rapporto con il fascismo, dall’altra il bisogno di spiegare a se stessa un evento così traumatico e sconvolgente come la guerra in Ucraina. Benché Melandri neghi ripetutamente la possibilità di creare parallelismi tra epoche storiche differenti, mostrando anzi come ciò avvenga spesso con intenti ideologici e propagandistici (quando Putin considera ad esempio l’aggressione all’Ucraina una prosecuzione della guerra contro il nazismo), il testo individua comunque diversi “rispecchiamenti” tra l’aggressione russa dell’Ucraina e la cosiddetta “Ritirata di Russia”, che come viene ripetutamente evidenziato nel testo si svolse principalmente in Ucraina, nelle stesse città e negli stessi luoghi dell’attuale guerra. 

    Di fronte alla mancanza di strumenti intellettuali ed emotivi di noi europei nati dopo il 1945, “vissuti sempre nella pace e nel benessere”, per comprendere una guerra così vicina come quella tra Russia e Ucraina, l’autrice chiede aiuto al padre morto ormai da dieci anni, che tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 aveva combattuto come giovane tenente della divisione Julia proprio in quei territori: “Ho bisogno di sapere della guerra. Per questo ti chiedo aiuto”. Prendendo le mosse dai racconti del padre, Melandri cerca di capire il conflitto attualmente in atto e a partire da questo conflitto getta una luce diversa sulle memorie del padre. Così come nel suo precedente romanzo Sangue giusto (2017) aveva affrontato criticamente i crimini commessi dagli italiani nella guerra d’Etiopia, l’autrice si confronta in quest’opera con la cosiddetta “Ritirata di Russia”, smascherando la falsa immagine trasmessa dalla memorialistica dei “buoni italiani” vittime ad un tempo del regime fascista, dei cattivi camerati tedeschi e dei bolscevichi, per mettere in chiaro come gli italiani siano stati in quell’occasione degli invasori, alleati di Hitler, che combattevano nel contesto di una guerra coloniale di conquista. Non diversamente, anche l’attuale invasione dell’Ucraina non è secondo Melandri nient’altro che l’espressione di uno storico processo di aggressivo colonialismo imperialista russo, che ha riguardato anche altri paesi oltre all’Ucraina. L’autrice ammette la propria ignoranza riguardo a questo colonialismo imperialista, completamente rimosso dalla cultura italiana e da quella occidentale più in generale, confessando che “c’è voluta la guerra d’invasione per farmelo capire” e cercando quindi di ricostruirne alcuni aspetti fondamentali, come ad esempio la “liquidazione dei kulaki” e soprattutto lo Holodomor, il piano genocidario con cui Stalin provocò negli anni 1932-33 la carestia che causò la morte di più di tre milioni di cittadini ucraini. 

    Il titolo dell’opera, che riprende in parte il titolo originale delle memorie del padre – Faceva freddo (1956), pubblicato solo nel 1970 con il titolo Ritorno col matto – rimanda all’incubo degli alpini durante la “Ritirata di Russia” e quindi anche del padre, che li considera come metafora del male assoluto. Essi incarnano la sofferenza del singolo, che si oppone ad ogni spiegazione ideologica. Ma i “piedi freddi” rinviano contemporaneamente al carattere polemico dell’opera, che denuncia la persistenza in Italia e in Occidente di una “narrazione secolare imperiale” russa, criticando contemporaneamente il silenzio assordante di “tante menti brillanti del mio paese” sulla distruzione e il dolore che ogni giorno affliggono l’Ucraina. Poiché in inglese “to get cold feed” significa spaventarsi di fronte a una decisione importante e quindi anche non mantenere un impegno assunto, il titolo contiene infatti anche una critica all’atteggiamento titubante dell’Occidente riguardo agli aiuti per l’Ucraina. 

    Benché in modo meno evidente che nei suoi tre precedenti romanzi, anche quest’opera è caratterizzata da una struttura precisamente elaborata. I trentadue capitoli che compongono il testo sono raggruppati infatti in sette sezioni, che indicano chiaramente l’andamento dell’argomentazione. Si passa infatti dal particolare al generale e dal generale di nuovo al particolare: le “STORIE” individuali dell’esperienza paterna riportate nella prima sezione lasciano il posto alla “STORIA” con la “S” maiuscola della seconda, che raccoglie riflessioni su diverse interpretazioni ideologiche degli eventi storici. Si prosegue quindi con le “IDEE”, vale a dire con riflessioni sulle rimozioni ideologiche dell’Occidente, per passare ai “CORPI”, ovvero alle esperienze individuali per eccellenza del dolore e della sofferenza. Le due sezioni seguenti affrontano questioni di morale o di etica: la quinta sezione, intitolata “SCELTE”, narra di alcuni esempi di scelte positive di fronte alla realtà della guerra, mentre la sesta sezione, “SGUARDI”, contiene capitoli che illustrano diverse modalità di rifiuto della realtà e di falsificazioni ideologiche attraverso le parole. Gli ultimi tre capitoli della settima sezione, intitolata “VISIONI”, sono più fortemente autobiografici e pongono la questione dell’ottimismo e della necessità di combattere per lo stato di diritto e la giustizia. 

    Il tema a mio avviso centrale di quest’opera riguarda la possibilità di raccontare la guerra. In un passo dell’opera si afferma che “nessun racconto che si fa della guerra è vero. [...] Perché non possono essere vere le parole con cui si racconta la guerra. Veri sono solo la morte, la perdita, il dolore. Vero è soltanto il freddo. [...] Le parole sono inutili [...]. Eppure quest’inutilità, questa impotenza, questa riprovevole pochezza, ecco che anche tu [padre] hai cercato di esprimerla – con le parole.” Come mostrano i capitoli dei primi due blocchi, infatti, le “STORIE” di guerra del padre, tanto quelle orali che fondano il “canone familiare”, che quelle riportate nei tre libri di memorie da lui pubblicati, sono probabilmente “leggende”, “mitopoiesi familiare”, aneddoti più o meno inventati. Ma non hanno maggiore realtà le costruzioni ideologiche che costituiscono la “STORIA” ufficiale, come mostrano ad esempio le narrazioni patriottiche nazionali della cosiddetta “Ritirata di Russia”. 

    Di fronte a questa impasse del racconto, sembra restare solo la testimonianza. Secondo Victorja Amélina, una giovane scrittrice ucraina uccisa da un razzo mentre era in pizzeria, “c’è un tempo della testimonianza e un tempo dell’invenzione”. E l’epoca attuale sarebbe naturalmente quello della testimonianza. Ma anche la questione della testimonianza è più complessa di quello che potrebbe sembrare a prima vista. Chi è infatti il testimone? Secondo Melandri, “è testimone di una guerra solo chi ci ha messo il corpo”, mentre anche noi che possiamo assistere per così dire in diretta agli eventi di guerra attraverso i nuovi social media, “siamo solo gli spettatori”. Ci troviamo qui di fronte allo stesso dilemma presente in Primo Levi, per il quale gli unici testimoni della Shoah sono i “sommersi”, che però in quanto tali non possono testimoniare. Vicotrija Amélina aveva raccolto e pubblicato bensì i diari di un “sommerso”, vale a dire i diari scritti da Volodymyr Vakulenko prima di venir torturato e ucciso, ma si tratta evidentemente di un caso rarissimo di testimonianza di un “sommerso”. Quali possibilità restano però allora a chi non ha mai vissuto la guerra, come la nostra generazione di occidentali? Solo una testimonianza di seconda mano o “per procura”, come per i “salvati” di Primo Levi? 

    Un altro problema importante che viene affrontato nel libro è quello della scelta morale e quindi della distinzione tra colpa e responsabilità. Il padre della narratrice è in grado di servirsi delle parole, ma non sa scegliere tra “ciò che è giusto e ciò che è sbagliato”. E la stessa cosa sembra valere anche per la maggior parte degli italiani, che non sono riusciti a rielaborare il proprio passato, né quello coloniale, né quello fascista, come mostrano ad esempio le omissioni o le falsificazioni terminologiche raccontate nella sezione “SGUARDI”. Persino l’assunzione di una generica “colpa collettiva” può anzi servire secondo Melandri a sfuggire alla responsabilità. È esattamente quanto avvenne nella Germania del dopoguerra, dove il filosofo Karl Jaspers già nel 1946 aveva differenziato in un testo fondamentale intitolato Die Schuldfrage (La questione della colpa) quattro tipi di colpa e responsabilità. Nella stessa direzione si muove anche Melandri quando distingue tra “colpa” e “responsabilità”, mostrando come l’assunzione di una “colpa collettiva” possa essere addirittura espressione di “vanità”, mentre è solo l’assunzione di “responsabilità” che “agisce sul presente ... e conduce al futuro.”

    La conclusione sottolinea bensì la necessità di lottare per lo stato di diritto e per la giustizia, ma lascia aperta la questione se si debba o si possa essere ottimisti o pessimisti. Pur sostenendo la necessità e l’inevitabilità dell’ottimismo, il fatto stesso che l’ultimo capitolo si intitoli “Bufera” e che Melandri si interroghi su quale potrebbe essere il suo comportamento in caso di una guerra, non fa presagire nulla di buono. Chiudendo il libro, al lettore rimangono dunque i tre sentimenti con cui l’autrice si congeda dal padre: il riconoscimento dell’amore della figlia per il genitore e l’alternarsi ambivalente di “sgomento e speranza”. 

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Luca Marcon So., 01.09.2024 - 17:24

«Nell’ultima opera di Francesca Melandri, intitolata Piedi freddi, le memorie del padre sulla “Ritirata di Russia” aiutano a comprendere l’aggressione russa dell’Ucraina, mentre l’attuale guerra in Ucraina getta nuova luce su quegli eventi di ottant’anni fa.»

Non ho titolo per confermare (o confutare) questa affermazione, per il semplice motivo che il libro non l'ho letto. Ma se ci si volesse riferire al primo libro dell'autrice - «Eva dorme» -, dal punto di vista storico poteva sembrare che certe descrizioni dei fatti - e soprattutto le loro omissioni - le fossero state suggerite da una sorta di ipotetico Minculpop in salsa sudtirolese: altro che aiutare a comprendere. Ne ho parlato qui:
https://salto.bz/en/article/03092022/eva-dorme-di-francesca-melandri
e qui:
https://salto.bz/en/article/26102022/lalexander-langer-di-francesca-mel…

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