Kultur | Bombenjahre

Vi prego, dimentichiamo la nostra storia

Non c’è niente di più utile dell’esercizio della memoria storica. A patto che non diventi ipertrofico. In quel caso, forse, meglio dimenticare.

Ripiegata su se stessa, accartocciata sul proprio passato, rattrappita in un esercizio della rimembranza che ricomincia sempre di nuovo, la società sudtirolese “colta” e “istituzionale” ama il proprio ombelico come Narciso amava la propria immagine riflessa sull’acqua. E ovviamente, stavolta al contrario di Narciso, sono in particolare le cicatrici sul volto, le ferite, le offese subite a risultare l’oggetto privilegiato, se non proprio esclusivo, della vittimistica esplorazione. Prigionieri di una ricorsività ossessiva ricamata attorno a un pugno di eventi salienti (sempre quelli: l’annessione forzata, la dominazione fascista, le opzioni, l’occupazione nazista, gli anni delle bombe), i sudtirolesi “colti” e “istituzionali”, soprattutto quelli fieri di esserlo, cioè praticamente quasi tutti, non sembrano mai paghi di ascoltare e riascoltare il lamento che può essere spremuto da una documentazione conservata negli archivi, nei bauli nascosti in soffitta, nella voce registrata dei nonni, dei genitori, degli zii e delle zie che non cessano di parlare neppure per inzuppare la madeleine nel tè, finché il quadro d’insieme viene poi oscurato dalla gigantografia dei dettagli, dalla loro ipertrofica mnemotecnica.

Eccessi didascalici e mancanza di straniamento

Chi ha assistito allo spettacolo Bombenjahre, in programmazione al Teatro Comunale di Bolzano, non ha potuto così sfuggire al cappio di tale inclinazione neppure per un minuto della lunghissima performance. A renderlo ancora più stretto, quel cappio, la scelta di affidare gran parte dei ruoli alle stesse persone che furono protagoniste o comunque direttamente testimoni degli eventi raccontati. In questo modo il tratto documentaristico e didascalico ha compromesso la resa artistica, che avrebbe potuto alleggerire la morsa data dall’obbligo di identificarsi con quanto visto e ascoltato. L’inserimento di un diaframma straniante, di una distanza in grado di separare i rappresentanti dai rappresentati (accorgimento indispensabile a garantire libertà interpretativa e respiro critico), avrebbe senza dubbio evitato lo schiacciamento sui “nudi fatti” esibiti da testimonianze semplicemente accostate e dunque mai dialoganti. Fatti che, evidentemente, il regista e gli autori e tutti quelli che hanno contribuito all’allestimento di tale iper-realistica messinscena volevano quindi solo ribadire in ogni aspetto, moltiplicandone l’effetto per ogni singolo frammento di tempo a loro (e nostra) disposizione.

Preoccupazioni accademiche

Paradigma dello schiacciamento suddetto la buia stanzina in cui uno spettrale Siegfried Steger, in collegamento video, ripeteva la sua angusta visione delle cose e del mondo, costringendo gli spettatori ad affacciarsi sul bordo di accadimenti raggelati nel loop di inesauste recriminazioni. Anche la questione di fondo, se cioè gli anni delle bombe siano stati utili o dannosi all’evoluzione del processo autonomistico, ha finito così con l’irrigidirsi in una tesi ripetuta pedissequamente da chi l’ha già mille volte enunciata ex-cathedra nella “vita reale” (Rolf Steininger). Una tesi, peraltro, tanto indecidibile quanto superflua, perché all’altezza storica in cui ci troviamo, la questione della causa e dell’effetto è davvero diventata una preoccupazione meramente accademica, in tutto e per tutto simile alla discussione postrema che i due protagonisti del film Youth di Paolo Sorrentino, come noto un film sulla vecchiaia, facevano a proposito di una loro comune e ingiallita relazione amorosa.

Il coraggio di dimenticare

Esausto, nauseato, arrabbiato con me stesso e con tutti gli altri spettatori plaudenti, mi sono chiesto per quanto tempo ancora il Sudtirolo e i sudtirolesi “colti” e “istituzionali” rimarranno imprigionati e quindi soffocati nell’esame minuzioso della “loro” storia, da essi considerata l’unica storia mai accaduta (o perlomeno degna di essere raccontata) dall’inizio dell’universo. Fuori dal teatro, l’autobus degli anni Sessanta – nel quale si poteva salire per compiere l’ennesimo viaggio a ritroso nel tempo – strideva con lo sfondo dell’Hotel Alpi, dimora dei rifugiati vittime dei conflitti e delle guerre attuali. Il simbolo, il senso mancato da questa ennesima e imponente operazione-memoria è tutto qui, ovvero nell’incapacità manifesta di comprendere che ormai solo al prezzo di una salutare dimenticanza del proprio passato sarà possibile anche elaborare una vera sensibilità per ciò che oggi si sta dispiegando attorno e davanti a noi, e non sempre dietro di noi.

Ultima avvertenza e un invito

Concludo con un’avvertenza (temo infatti molto di essere frainteso e invece non vorrei essere frainteso). Quando dico che occorre finalmente il coraggio di dimenticare non sto ovviamente dicendo che bisogna abbandonarsi alla superficiale piega (e piaga) della rimozione. Ricordare, approfondire, spiegare ciò che si è ricordato e approfondito sono pratiche preziose e non dovrebbero mai venire meno. Ma quando tali pratiche si risolvono in un esercizio di esibita autoreferenzialità (come a me sembra sia il caso di questo spettacolo) il rischio è quello di chiudersi per sempre in una bolla che ci allontana dal mondo. Per evitare un rischio siffatto è dunque indispensabile forare la bolla, suggerire che ogni contestualizzazione ha l’obbligo di allargare lo sguardo verso altri e ulteriori orizzonti. La società sudtirolese è sempre più spaccata tra una componente incapace di guardare oltre se stessa a causa di un eccesso d’interesse e di alimentazione delle proprie radici, e un’altra che vaga spaesata tra la totale assenza di riferimenti culturali, che non siano quelli massificati e imposti dal dominio della pubblicità, e richiami che viaggiano lontanissimi da qui. Tra le due componenti non esiste passaggio, non esiste mediazione, non esiste alcuna forma e possibilità di dialogo. Ecco un tema sul quale sarebbe non solo utile, ma veramente urgente discutere. Mi piacerebbe che la mia riflessione fosse letta come un invito a farlo.