Politik | Riflettendo

Arno al bivio

Cosa succederebbe se provassimo a prendere sul serio l’intervista concessa da Kompatscher a Salto.bz sul cosiddetto disagio degli italiani?
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Foto: web

Kompatscher riduce il dibattito all’esigenza del quotidiano acquisito dal gruppo Athesia di rivendicare la sua autonomia e la sua “italianità”. Usando lo stesso metro di misura sarebbe facile dire che il sostegno della Svp alla campagna della destra tedesca sulla toponomastica, la chiave scatenante, anche se non unica della frustrazione di una parte preponderante del mondo italiano, è dettata dalla necessità politica di non fare scavalcare il partito di raccolta a destra perdendo alle prossime elezioni parti consistenti di elettorato. Il problema è purtroppo più complesso e riguarda qualcosa che Kompatscher si guarda bene di affrontare ovvero il tema del futuro di questa terra e della strategia da seguire per lasciare alle spalle un secolo di conflitti e tensioni.

La toponomastica è stata una delle questioni che hanno fomentato il riaccendersi del dibattito sul disagio e lo stato di salute del gruppo italiano. Fa sorridere che chi ha partecipato attivamente alla riemersione del tema adesso si stupisca sul senso di smarrimento provocato su una comunità che già è minoritaria in termini di demografici sociali e economici sul territorio provinciale. 

Forse vale la pena risalire alla storia recente del tema. Una decina di anni fa un gruppo animato dallo psichiatra Bruno Frick aveva rilanciato il tema dei toponimi. Frick rivendicava il diritto a fare tornare indietro le lancette della storia da parte della minoranza tedesca propungando non solo l’eliminazione dei nomi di Tolomei ma anche anche un ridimensionamento del gruppo italiano alla percentuale di italofono presenti in provincia di Bolzano nel 1918 (circa il 5%). Il governatore Durnwalder si era premurato di sostenere la causa in via sia indiretta che diretta attraverso il rapporto con i ministri romani (Fitto prima e Delrio dopo) e soprattutto evitando di intervenire per rimuovere i cartelli monolingui comparsi in aperta violazione dello statuto di autonomia. La battaglia sui nomi è diventata cavallo di battaglia dell’ultima legislatura, l’unico invero, mancando completamente di competenza politica aggiuntiva, da parte dei partiti dell’estrema destra tedesca che rivendicano una vicinanza culturale con l’estremismo in odore di simpatie naziste dei Freiheitlichen di oltrealpe.  

Tra le prime apprezzate dichiarazioni successive al suo insediamento il governatore Kompatscher aveva espresso la volontà di lasciarsi per sempre alle spalle le diatribe etniche. La Svp è purtroppo un partito in aperta crisi di visione. Al suo interno si trovano figure che esprimono le istanze della destra dell’assessore Stocker già vicepresidente del Fuen, fino alla posizioni più dialoganti e pragmatiche dell’ala economica. Stretto tra i diversi gruppi di pressione e osteggiato in modo più o meno aperto dai fratelli Ebner e dal loro gigantesco conflitto di interesse Kompatscher non è riuscito purtroppo a smarcarsi. La prospettiva di una presidenza Hofer in Austria deve avere portato ulteriormente a pensare di fronteggiare le spinte revansciste e secessioniste provenienti dal mondo delle valli e della periferia e così si è arrivati a un sostegno aperto al progetto di eliminazione della toponomastica italiana che paradossalmente prima ancora di essere oggetto di discussione è stata politica già messa in atto nei fatti sulle montagne e nelle periferie. Sentire il governatore parlare del riemergere della questione del disagio degli italiani come di un rigurgito neonazionalista in questo quadro produce prima ancora che sconcerto un senso di malessere profondo. E’ questa la guida e il traino per portare la provincia di Bolzano fuori dalle secche del conflitto etnico? Non si riesce a vedere che fino a che non sarà definitivamente superato con pari beneficio tra le comunità linguistiche che abitano il territorio il fuoco del nazionalismo continuerà a rappresentare la Spada di Damocle che rischia di affossare i risultati raggiunti in questi ultimi quaranta anni? 

Disconoscere il valore identitario della lingua come segnale di identificazione con il territorio è un’operazione che non ha alcuna legittimazione storica. La storia è un processo dinamico e oggi sono più gruppi linguistici a abitare il territorio della provincia di Bolzano. Per chi è cresciuto identificando i nomi di cime valli e luoghi nella propria lingua madre vedere l’opera di pulizia attuata in nome del principio di giustizia storica prima ancora che un enorme crimine culturale, è un’umiliazione che fa molto male. 

Ne vale davvero la pena? Si può sacrificare il senso di identità e le aspettative di un intero gruppo linguistico per soddisfare le richieste di politici che perseguono il consenso parlando alla pancia degli elettori? Si può avere come riferimenti di un dialogo politico persone come Kollman o Knoll, sperando di non andare incontro all’esplodere di nuove forme di conflittualità che metteranno a rischio il benessere raggiunto da parte di tutti? 

Perché in fondo l’autonomia della provincia di Bolzano è legittimata esclusivamente dalla capacità come istituzione e patto sociale che ha avuto in questi anni di evitare un conflitto accesso. Senza questa garanzia l’autonomia resta solo un privilegio che i rapporti di forza tra le nazioni e i gruppi possono ribaltare. E in una società globalizzata e attraversata da cambiamenti epocali è assai probabile che pochi si accorgerebbero dell’accaduto.

Se Kompatscher vuole non essere un prigioniero di logiche di consenso di breve periodo ma uno statista che segna la storia di questa terra farebbe bene a guardare il film Invictus che parla della figura di Nelson Mandela. Quando Mandela fu nominato presidente del Sudafrica dopo ventiquattro anni di prigionia aveva molte buone ragioni per vendicarsi dei suoi avversari. Ma Mandela era una persona intelligente che vedeva lungo. Quando il suo partito votò per cambiare il nome Springboks alla squadra nazionale di rugby il Sudafrica era uscito da un periodo difficilissimo con un sistema legislativo che aveva oppresso e segregato la maggioranza nera. Il sistema del cosiddetto apartheid era durato 42 anni molto è più del ventennio fascista di Mussolini lasciando dietro di sé una tensione sociale e politica altissima. I quattro quinti della popolazione del paese erano neri, mentre la squadra nazionale di rugby orgoglio del paese era composta quasi esclusivamente da afrikaner bianchi e era sostenuta da tifosi che non lesinavano di esporre striscioni razzisti nei confronti dei neri.  

Il partito di Mandela aveva ottime ragioni per chiedere il cambio del nome della squadra di rugby ma Mandela si oppose. Quello che Mandela aveva capito era che una nazione spaccata dal conflitto si ricostruisce solo insieme e non con prevaricazioni di un gruppo sull’altro. I simboli sono importanti e non si depotenziano facendoli sparire ma attribuendo a essi un nuovo significato. Mandela così chiese di organizzare i campionati del mondo di rugby in Sudafrica e chiese al capitano della squadra di vincere il torneo a nome di tutti i sudafricani uniti. Quando il Sudafrica vinse la finale con gli All Blacks neozelandesi Mandela si presentò in campo con il berretto degli Springboks e il pugno chiuso che simboleggiava la lotta all’apartheid in nome della nuova unità nazionale post apartheid. Il futuro era il suo orizzonte e non un passato torvo e pieno di ingiustizie. 

I revanscisti a la Kollmann non hanno orizzonti. Il loro sguardo è ricurvo sul passato e si portano dietro con esso astio e istanze di vendetta che non appartengono a una visione moderna e accettabile di democrazia. Sarebbe bello che Kompatscher prendesse in mano le redini del suo partito e lo portasse oltre la palude delle contrapposizioni etniche. Sostenere che l’eliminazione dei toponimi italiani è un atto di giustizia storica purtroppo è un’ affermazione priva di contenuto sia politico che culturale. L’idea destinata a passare sarebbe quella che è la rivalsa a guidare l’azione dei partiti tedeschi e che gli italiani sarebbero destinati a fare la fine prima o poi dei loro nomi. 

Il cordiale e educato Arno Kompatscher è arrivato a un bivio. Trattare le tematiche del disagio come materia di propaganda non gli fa onore. E soprattutto si può fortemente dubita che ciò gli potrà portare fortuna elettorale. Ma Kompatscher non è il vecchio Luis Durnwalder. Forse quello che gli serve è solo un po’ più di coraggio per comprendere che, dopo i conflitti, l’unica strada per andare avanti è che vinti e vincitori si diano la mano.