Talvolta ci si imbatte in notizie dal retrogusto talmente comico da suscitare l'effetto contrario: più che ridere, viene da piangere. Qualche giorno fa l'assessora alle politiche sociali Martha Stocker ha tenuto a quindici richiedenti asilo ospitati a Laives una lezione di storia locale, nella quale ha spiegato loro che l'Alto Adige ha fatto parte per molti secoli del Regno degli Asburgo per poi, dopo la fine della Prima guerra mondiale, passare all'Italia in seguito al trattato di pace di St. Germain. Ha ovviamente illustrato il periodo fascista, ha ricordato le Opzioni, l'accordo di Parigi, l'ottenimento del primo – insoddisfacente – statuto di autonomia, il coinvolgimento dell'ONU (il comunicato ufficiale non ci informa se abbia parlato anche della cupa stagione degli attentati) e infine, sospirato happy end, la conclusione mediante l'approvazione del secondo statuto. Ecco la morale che ne ha tratto: “Se vogliamo che i profughi siano in grado di comprenderci e di capire il nostro modo di vivere dobbiamo anche spiegare loro perché siamo così”. Ora, perché una cosa del genere è tristemente comica? L'assessora ha evidentemente un concetto di “integrazione” basato su una visione limitata e unilaterale: chi viene qui deve adeguarsi ed essere trattato come se fosse uno spensierato bambino di nove anni. I drammi vissuti, il portato della propria cultura di appartenenza, tutto ciò che insomma riguarda più da vicino la difficilissima condizione di migrante è qualcosa da azzerare davanti al ritornello delle sofferenze patite dalla popolazione locale. Sofferenze che hanno infatti sempre la precedenza e non possono essere mai messe tra parentesi. Alla fine della sua lezione, Stocker ha lodato il nostro sistema politico e giuridico, secondo il quale non “vi deve essere alcun tipo di discriminazione sulla base della provenienza, della razza, del genere, del sesso, della religione, della disabilità o dell'orientamento sessuale”. La realtà però è molto diversa. Individuate proprio grazie al colore della pelle, le persone che si trovano a transitare dalle nostre parti sono spesso fatte scendere a forza dai treni e, se non rientrano nella stretta quota prevista dai criteri di accoglienza, rischiano di passare la notte per strada. Non bastasse, abbiamo avuto pure il caso della morte di un minorenne disabile, respinto dalle strutture ricettive e finito in una cella frigorifera dell'ospedale per più di un mese. Sarebbe opportuno che Stocker capisse che “se vogliamo che i profughi siano in grado di comprenderci” è prioritario ascoltare soprattutto la loro storia e le loro esigenze, perché non lo facciamo quasi mai.