Gesellschaft | Salto Gespräch

Suolo, non sangue

Una chiacchierata sulla Heimat e l’Europa con Paolo Rumiz.
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Foto: upi
Patrick Rina: Caro Rumiz, quando si parla di Prima guerra mondiale è necessario parlare di “Trento e Trieste”, ovvero di un mito creato e in parte strumentalizzato dall’Italia. Da triestino come vive tutto questo? 
 
Paolo Rumiz: Beh Trieste è un mito anche per gli austriaci... in senso ovviamente diverso. Quanto al mito risorgimentale ci riesco in modo scanzonato, come faceva mia nonna. Mio nonno materno ha combattuto in Galizia per l’Austria, suo fratello era però uno dei principali irredentisti triestini. Posso affermare di essere nato complicato – sia da parte di madre, sia da parte di padre. Anche mio padre aveva un carisma di complessità, era nato da emigranti friulani a Buenos Aires. Se fosse stato triestino, l’Italia fascista gli avrebbe tolto la Zeta finale di Rumiz. Ma essendo friulano, quindi di un territorio italiano già del 1866, la famiglia ha potuto conservare la z finale, quindi il cognome non è stato italianizzato. Il “mito”, come Lei lo chiama, di Trento e Trieste città italiane l’ho accarezzato per la prima volta nel 1954 quando arrivarono i bersaglieri italiani alla fine del periodo del governo militare alleato. Ricordo che mio padre era eccitatissimo. Era un ufficiale dell’Esercito italiano, un vero galantuomo che dava del Lei ai suoi soldati. Da lui ho preso la dolcezza d’approccio con le persone e il mondo. Lui aspettava febbrilmente l’arrivo dei bersaglieri che avrebbero confermato la “Trieste italiana”. Però va ricordato che sotto gli americani noi triestini stavamo stupendamente. Ci viziavano con birra e penicillina, con arance e banane – tutte cose che nel resto d’Italia erano difficili da trovare a quel tempo. Il 3 novembre del 1954 mio padre mi caricò sulla giardinetta e di notte mi portò al confine di Duino, dove c’erano i camion dei bersaglieri che aspettavano di entrare a Trieste. Mio padre preparò una cuccia nel bagagliaio. C’erano i ragazzi piumati che tiravano le ragazze sul cassone e le baciavano. Ecco, questo è stato il mio primo incontro con il “mito”. 
Sì, l’annessione del Sudtirolo è stata un errore, non c’è il minimo dubbio.
E poi sono cresciuto in un clima di alzabandiera, di parate militari. Non ero in grado di capire tutta questa felicità per l’italianità di Trieste, io non avevo vissuto la guerra. Per me il confine non era un incubo come per i miei genitori. Per loro il confine era la protezione dal nemico slavo comunista. Io non avevo vissuto la traumatica occupazione jugoslava. Per me il confine era – e lo è ancora adesso – uno straordinario punto d’osservazione. Per i miei genitori era una linea sismica, per me era ed è un sismografo, una cosa completamente diversa. L’idea di avere dei popoli che parlavano un’altra lingua, diversi da me, magari più “barbari”, ha fatto crescere in me anche il mito di ciò che stava dall’altra parte. 
 
Lei ha parlato della felicità di suo padre per la “Trieste italiana”. Va ricordato che lo Stato italiano – prima quello fascista, poi quello democratico – fece di tutto per far dimenticare quello che c’era stato prima del 1918, ovvero la storia absburgica di Trieste. 
 
Sì, questo è vero. L’eredità austriaca fu purtroppo negata – anche per motivi squisitamente politici. Negli anni Cinquanta era importante difendere Trieste dalle bramosie di conquista dei comunisti jugoslavi che stavano dall’altra parte del confine. Perciò era importante difendere l’italianità della città. Lo stereotipo dell’Italia come protettrice dei triestini rimase fino alle soglie del Duemila. È la dissoluzione della Jugoslavia posttitina a spezzare finalmente questo stereotipo. L’Italia viveva l’incendio jugoslavo degli anni Novanta con un’apprensione crescente. Noi triestini, invece, lo vivevamo come un allontanamento del pericolo. La scomparsa della vecchia frontiera per me è stato un elemento quasi biografico. Io, infatti, sono nato nella notte in cui venne tracciato il confine: il 20 dicembre 1947. Quella notte gli jugoslavi e gli americani piantarono i picchetti. Io sono a tutti gli effetti un vero figlio della frontiera, quasi come uno dei “Figli della mezzanotte” descritti nel celebre romanzo di Salman Rushdie. Quando compì 60 anni, ovvero il 20 dicembre del 2007, la Slovenia entrò nell’area Schengen. Io organizzai una grande festa di compleanno sulla frontiera ribadendo un concetto importante: ogni frontiera è un grande invito a viaggiare e ad andare oltre. 
 
L’Italia ha molti confini problematici. Non c’è solo quello che divide Trieste dalla Slovenia. C’è anche la cicatrice del Brennero. Secondo Lei l’annessione del Tirolo meridionale è stato un errore politico dell’Italia? 
 
Sì, l’annessione del Sudtirolo è stata un errore, non c’è il minimo dubbio. L’Italia oggi avrebbe meno complicazioni. Cent’anni fa la politica italiana era vittima dell’idea dello spartiacque come divisione e frontiera tra nazioni. Nella storia delle Alpi lo spartiacque non era mai stato un confine. Cesare Battisti all’inizio della sua lotta irredentista fu contro la frontiera al Brennero. Sicuramente l’Italia nel 1918 aveva occupato una terra che non le spettava. Questo vale anche per certe zone dell’odierno Friuli-Venezia Giulia. Quando l’Italia ricevette Gorizia, si ritrovò a dover gestire una popolazione slovena più forte di quanto ci si aspettasse. Questa minoranza mandò due parlamentari a Roma. E Roma cosa fece? Non rispettò i diritti degli sloveni e divise il territorio della provincia di Gorizia, ingrossando quella di Udine, per diluire la presenza slava. L’Italia non ha saputo relazionarsi in modo rispettoso con i suoi nuovi cittadini – né a Gorizia e Trieste né in Sudtirolo. 
 
L’Italia ha perseverato nell’errore anche dopo il 1945?
 
In parte sì. Anche l’Italia postbellica non ha saputo cogliere in pieno la ricchezza culturale del Sudtirolo, non ha saputo rispettare le simbologie del luogo. Mio padre era, come detto, ufficiale dell’Esercito. Negli anni Cinquanta andava a Colle Isarco, o meglio, a Gossensass. Lì c’era una vecchia caserma absburgica occupata in quel periodo dagli alpini. Per gli abitanti del posto doveva essere un’offesa alla Storia, a me sembrava la cosa più naturale del mondo. Ho vissuto questi luoghi con assoluta incoscienza. Mi ricordo del confine del Brennero. Attraversarlo era un rito che garantiva l’ordine del mondo. Noi andavamo in Austria per comprare dal macellaio Fleckinger a Gries am Brenner una carne dal sapore e dal profumo molto diversi da quella italiana, compravamo il rum Stroh, le caramelle Pez. Il rapporto con i contadini dell’altra parte era una liturgia priva di drammi. Gli austriaci venivano belli tranquilli a Sterzing per andare dalla signora Baumeister. Questa aveva un enorme emporio ove vendeva del vino italiano di pessima qualità, ma gli austriaci erano felici di poterlo bere. Io non vedevo quanto recenti erano state le due guerre, eppure davanti a me passavano i soldati nel sidecar. Nella Wipptal c’era gente che sciava con una gamba sola. Queste sono le ferite del passato. Ancora oggi non tutti ne vogliono parlare. 
 
Questo vale per la comunità sudtirolese, ma vale anche per gli altoatesini di lingua italiana. Proprio gli italiani, per un fatto psicologico comprensibile, sono estremamente suscettibili. Le faccio un esempio: se viene imposto loro un regolamento sulla raccolta dei funghi, gli italiani rischiano di vivere la cosa come un provvedimento mirato contro di loro, per il semplice fatto che gli italiani mangiano più funghi dei tedeschi. Scherzi a parte: chi vive sulla frontiera deve fare i conti con queste cose che possono sembrare banali. Io stesso quando vengo in Sudtirolo mi chiedo se la persona che incontro su un sentiero di montagna è italiana o tedesca. Questo retropensiero tipico della frontiera ci segue ovunque. 
 
Molti altoatesini di lingua italiana inorridiscono dinanzi alla “proporzionale etnica” che regola la vita pubblica in Sudtirolo. Da non-altoatesino pensa che bisognerebbe ripensare questo sistema?
 
La proporzionale dovrebbe essere più permeabile. Con le regole di adesso ti capita per esempio di dire di no a professionisti straordinari che potrebbero risollevare le sorti della sanità pubblica. Al posto del luminare prendi un imbecille che, però, parla bene le due lingue della provincia. Questo è un problema. Però posso capire che nel gruppo tedesco ci siano ancora delle paure. 
Al posto del luminare prendi un imbecille che, però, parla bene le due lingue della provincia. Questo è un problema. 
Le destre tedesche sfruttano queste paure, parlano del rischio di italianizzazione. È un gioco di sponda, al quale partecipa anche la destra italiana. I due radicamenti nazionali si aiutano l’un l’altro. È un gioco delle parti. Poi magari, chissà, toccherà loro di governare assieme, e allora cascherà anche il gioco delle contrapposizioni. 
 
Di questo gioco pericoloso fa parte anche la lettura strumentalizzata della Storia. Per gli uni il 1918 porta alla fine del “mondo di ieri” e alla catastrofe per il Tirolo, per gli altri, invece, quell’anno fatidico segna la vittoria dell’Italia e il raggiungimento dell’unità nazionale. La verità storica dipende dalla prospettiva? 
 
Spesso è proprio così. Parliamo di Trieste. Anche nella mia città c’erano e ci sono queste prospettive discordanti. A Trieste il silenzio sull’appartenenza austriaca è saltato in aria all’inizio del Duemila quando la Slovenia è entrata nell’Unione europea. C’è stato una specie di outing della città all’inizio del Duemila e poi nel 2014 – cent’anni dopo lo scoppio della Grande Guerra. L’uscita del mio libro “Come cavalli che dormono in piedi” è stato un atto che ha scoperchiato un vaso ricolmo di ricordi e di cose mai dette. Sono stato sommerso di scritti, medaglie, cartoline, diari, lettere, onorificenze trovate nelle soffitte delle case. Ho ascoltato anche degli straordinari racconti orali. I nipoti raccontavano con una vivezza stupefacente il ricordo dei loro vecchi caduti per il Kaiser Franz Joseph. Questo mi fa affermare che la memoria dei vinti è molto più tenace della memoria dei vincitori. Proprio per il fatto di essere stata clandestina così a lungo, viene vissuta in modo più intimo e dunque più duraturo. La memoria dei vincitori è invece esposta alla ritualità vuota. Questo problema lo hanno persino gli ebrei con la shoah, il giorno della memoria sta perdendo di significato. Alla luce di ogni celebrazione, di ogni alzabandiera, di ogni discorso governativo che ho vissuto da bambino ho capito che l’unica possibilità di tenere vive queste memorie – che sono utili all’esistenza e sopravvivenza dell’Europa – è di rinunciare alle commemorazioni e sostituirle con le evocazioni. 
 
Ma come si costruisce una memoria collettiva e condivisa, se in Sudtirolo ci sono ancora delle tensioni etniche causate dai Monumenti fascisti alla Vittoria o dalle corone di spine della destra tedesca?
 
Forse nessuno vuole questa memoria condivisa. I partiti politici vivono grazie alla divisione etnica. La contrapposizione etnica è la grande scappatoia di chi non sa risolvere i problemi di carattere economico e sociale del nostro tempo. Questo elemento lo troviamo anche in altre zone d’Italia, per esempio in Veneto. Lì le montagne si stanno spopolando. Il governatore Zaia, un leghista di ferro, cosa fa? Anziché promuovere politiche per l’agricoltura di montagna va a contestare il confine sulla Marmolada. 
La contrapposizione etnica è la grande scappatoia di chi non sa risolvere i problemi di carattere economico e sociale del nostro tempo. 
La politica povera di contenuto sfrutta i simboli e la storia per lucrare consenso. Diciamoci la verità: gli italiani che vivono in Alto Adige sanno benissimo che il monumento alla Vittoria di Bolzano è fascista, però se gli fosse tolte lo vivrebbero come un sopruso da parte tedesca. Questo vale anche per gli italiani di sinistra. Nel vostro Südtirol di oggi manca lo spirito della vecchia Austria. Ci vorrebbe un governo superiore che viene da lontano per mitigare i conflitti locali. L’Austria-Ungheria non era pangermanica, sapeva mitigare. Era, seppur con tante difficoltà, una forma di Europa. Certo: era mezza morta rispetto alle giovani nazioni. Puzzava già di morte, ma aveva i suoi valori. Quando vedo i piccoli cimiteri della croce nera in Galizia io vedo dei monumenti all’Europa. L’Europa è nata in trincea: sul Carso, sulle Dolomiti, in Galizia. I nostri soldati sentivano i canti e il profumo della zuppa dell’avversario. La guerra di trincea consentiva un’intimità tra le due parti – non c’era odio, c’era paura, sì, ma c’era molto più antagonismo nei confronti dei rispettivi ufficiali – quegli ufficiali che mandavano a compiere azioni disperate. Ricordo la consegna della medaglia d’argento a uno dei due fratelli Stuparich che morì sull’altipiano di Asiago durante la Strafexpedition austriaca. Sulla tavola commemorativa c’era la scritta “non si arrese all’odiato nemico”. Il fratello fece cancellare la parola “odiato”. Ecco, gli avversai di allora non erano nemici, erano Nachbarn. Ci siamo dimenticati di questo. L’Austria imperialregia parlava ai popoli. Questo spirito servirebbe al Sudtirolo, all’Italia, all’Europa di oggi. L’Europa dei popoli dovremmo raccontarla di più, dovremmo sorvolare i reticolati, le frontiere, i muri. 
 
Secondo Lei discussioni sulla secessione del Sudtirolo o sul doppio passaporto italo-austriaco aiutano a sorvolare i reticolati?
 
Guardi che io non ho paura dei secessionisti. L’importante è che l’Europa stia in piedi. Anziché parlare di nuove secessioni dovremmo ritornare alla grande voglia di Europa di 40 anni fa. Lasciamo i confini così come sono adesso. Un buon confine con la sua ritualità è antidoto ai muri. Per quanto riguarda il doppio passaporto vorrei calmare gli animi: noi abbiamo gli istriani che hanno il passaporto italiano. L’Italia non ha nulla da ridire su questo campo. Non capisco lo scandalo. Non cambia nulla. Il doppio passaporto non toglie nulla agli altri. 
 
Caro Rumiz, dagli “altri” si può imparare tanto. Noi sudtirolesi e altoatesini cosa potremmo imparare da voi triestini? 
 
Potreste provare ad imparare dal mare. Il mare ha una componente di ironia ed autoironia che i nazionalismi non hanno. Noi triestini non possiamo vantare un pedigree profondo, noi non siamo quasi mai venuti da qui. Quasi tutti vengono da altrove, siamo tutti degli immigrati, dei magnifici bastardi, quindi noi abbiamo imparato a sostituire l’identità con l’appartenenza. Ecco: l’appartenenza! Il territorio non appartiene a me, ma io appartengo al territorio. È un concetto completamente diverso dalla mania di “sangue e suolo”. Chiunque accetta di vivere in un determinato spazio e ne accetta le regole ha l’obbligo storico e morale di tutelare quello spazio. Diventa il garante della Heimat, come dite dalle vostre parti. 
 
Però in Sudtirolo si parla ancora tanto di “sangue e suolo”. 
 
Io sono dell’idea che sia importante non demonizzare il suolo. Questo è stato un errore madornale della Sinistra. Per me Heimat non è il sangue, è solo il suolo! È il dolce canto dei ruscelli, è il vento che accarezza la montagna, è il profumo delle mele, è la vigna, il mare. Noi triestini siamo montanari e marinai. Ai tempi del Kaiser qui c’era un connubio tra polenta e seppia, tra il giallo e il nero che erano anche i colori della bandiera austriaca. Ma il mondo cambia. Dobbiamo rassegnarci: viviamo in un mondo che sarà meticcio. Possiamo regolare questa metamorfosi, non possiamo impedirla. L’integrazione riesce se diciamo alle persone che vengono da noi che devono diventare garanti rispettosi della terra che li accoglie. La cittadinanza viene conferita a chi coltiva e ama un luogo. Il sangue non ha alcuna importanza. Questa è la mia visione. 
Diciamoci la verità: gli italiani che vivono in Alto Adige sanno benissimo che il monumento alla Vittoria di Bolzano è fascista, però se gli fosse tolte lo vivrebbero come un sopruso da parte tedesca. Questo vale anche per gli italiani di sinistra.
Il sangue forse non è importante, ma la lingua sì – almeno in Sudtirolo. Qui ci sono ancora delle società parallele, qualcuno parla addirittura di “segregazione etnica”. Insomma, non ci si conosce. 
 
La non-conoscenza è, ovviamente, un grande peccato. Non so se la panacea sia l’introduzione di una scuola bilingue. Sono dell’avviso che le scuole altoatesine debbano avere dei grandi momenti in comune, ma che debbano comunque restare separate. Questo è importante per coltivare e tutelare la lingua e cultura di tutti, italiani, tedeschi e ladini. È come in un matrimonio: la simbiosi è una formidabile illusione. Non esiste che il marito si identifichi nella moglie e la moglie nel marito. No, ognuno coltiva il suo giardino, ma c’è uno spazio comune dove ci si incontra. Qual è la mia frontiera? La mia pelle – sento quello che mi sta vicino. Il fatto di essere diversi aumenta l’interesse reciproco. Quando incominciamo a somigliarci tutti l’un l’altro diventiamo un brodo comune immangiabile. 
 
 
Anche l’Europa dei burocrati non sembra essere commestibile. C’è tanto malumore e le destre demagogiche ci guadagnano. L’Unione europea del futuro come se la immagina? 
 
Vorrei un’Europa dei diritti, non solo dell’economia. Purtroppo lo spirito di Ventotene è franato in decenni di benessere e anche per via dell’ingresso frettoloso dei paesi dell’ex patto di Varsavia, che sono ancora sostanzialmente nostalgici dei poteri forti e vivono come nazioni uno stato di turbolenta adolescenza. Il problema dell’immigrazione è un problema serio per l’Europa come per la vostra piccola realtà sudtirolese. Quasi nessuno affronta questo argomento con la dovuta serietà. Quello che io non capisco è il motivo per cui si parla solo di questo. È uno dei cento problemi che abbiamo. Il riscaldamento climatico, la corruzione, la criminalità organizzata, il ritorno delle destre: i problemi sono infiniti. Noi dovremmo riuscire a portare il discorso sulla totalità dei problemi, non soltanto su questo grande elemento di depistaggio dalla realtà che è la discussione sull’immigrazione. Io non voglio che l’immigrazione diventi una cortina fumogena per tutto il resto. I sovranisti, soprattutto in Italia, sanno benissimo che il paese sta perdendo sovranità, che industrie, fabbriche, territori sono comprati e saccheggiati da delle multinazionali senza patria. E i nemici dell’Unione europea cosa fanno? Ci depistano con i loro discorsi ridicoli sulla frontiera della Marmolada. C’è un’industria nel vicentino che inquina in modo gravissimo le acque. Non si riesce a far smettere l’inquinamento, la Lega protegge questa industria tossica. E cosa fa? Inaugura un Leone di San Marco in una grande rotonda davanti a questa fabbrica. E la gente va, applaude, i giornali ne parlano. I giornali sono caduti nella trappola del discorso a senso unico della destra. Qualche tempo fa ho visto alla televisione tedesca un’intervista ad uno dei capi dell’estrema destra. Il giornalista non gli ha mai fatto una domanda sull’immigrazione. Ha fatto, invece, domande sul riscaldamento climatico e sulla globalizzazione perversa. Il politico dell’AfD non ha saputo rispondere a nulla. Questo esempio ci dice che dobbiamo smetterla con la retorica delle frontiere! 
Ci depistano con i loro discorsi ridicoli sulla frontiera della Marmolada. C’è un’industria nel vicentino che inquina in modo gravissimo le acque. Non si riesce a far smettere l’inquinamento, la Lega protegge questa industria tossica. 
Le destre oscurano i veri problemi della gente, mettono in discussione le radici stesse dell’Europa. L’Europa nasce, come detto prima, in trincea. Ma nasce anche da una rete di monasteri, ovvero di luoghi di conoscenza e pace, di cui facevano parte anche le vostre abbazie di Muri Gries e di Marienberg. Per ritornare alla Sua domanda iniziale: io vorrei un’Europa della cultura che sappia tramandare la propria eredità culturale. Io vorrei una militanza europea. Qualche anno fa ho avuto modo di parlare con Helmut Kohl. Gli chiesi di come fosse riuscito a convincere i tedeschi a rinunciare al marco e di dire sì alla moneta unica europea. Kohl rispose: perché ho avuto un nonno che è morto nella Grande Guerra. Fine. Con questo è detto tutto. Un uomo che ha il coraggio della leadership ha anche il coraggio di essere impopolare. Kohl sapeva che a un referendum sull’Euro avrebbe perso. Così ha fatto un passo straordinario in avanti, con lungimiranza. Cerchiamo di farlo anche noi, a Trieste come a Bozen. 
 
 
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△rtim post Mo., 07.01.2019 - 02:29

Wunderbarer Paolo Rumiz!
Fehlgriff Patrick Rinas mit seinem "Blut und Boden"-Zitat und Zuschreibung auf das aktuelle Südtirol. Einfach nur unwürdig und zutiefst verletzend diese (geschichtsvergessene) Aussage.
Denn gerade den Verlust der Tiroler ihrer angestammten Heimat deklarierte Hitler 1938 als seinen "unerschütterlichen Willen" und als sein "Vermächtnis an das deutsche Volk."

Mo., 07.01.2019 - 02:29 Permalink
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Massimo Mollica Mo., 07.01.2019 - 09:59

Intervista bella e interessantissima. Non condivido del tutto la sua visione. Con la frase "La contrapposizione etnica è la grande scappatoia di chi non sa risolvere i problemi di carattere economico e sociale del nostro tempo. " ci vedo la Lega ma allora dico che in Alto Adige Südtirol non dovrebbe esserci perché stiamo tutti benissimo!
Comunque ci ho riflettuto: per me l' Heimat è l' Umanità (Menschheit)!

Mo., 07.01.2019 - 09:59 Permalink
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luigi spagnolli Mo., 07.01.2019 - 10:04

Paolo Rumiz parla sempre chiaro. È assolutamente vero che una memoria condivisa non la vuole nessuno: perché non conviene a nessuno. Non conviene ai singoli cittadini, perché non risolve nessun problema tangibile, anzi ribalta i presupposti dei luoghi comuni e degli automatismi su cui si fondano, nella gran parte, i rapporti interpersonali. Non conviene ai partiti, che prendono i voti sulle contrapposiziono e non sulle alleanze. Non conviene a chi produce cultura, perché gli complica terribilmente la vita. Ciò non toglie che di una memoria condivisa c'è bisogno per disinnescare la microconflittualità etnica, fondata sulla paura del diverso: microconflittualità etnica che è come la goccia della stalagmite, nel lungo periodo produce sassi che limitano ogni tipo di convivenza.
Quindi la memoria condivisa va continuamente ricercata: come in altri settori della vita pubblica, anche in questo chi governa deve fare qualcosa di impopolare: difficilissimo, nel tempo della verifica quotidiana dei sondaggi da parte di chi amministra.
Una considerazione sullo spartiacque come frontiera fra le nazioni: non dimentichiamo che 100 anni fa si era ormai capito benissimo il potenziale di ricchezza e di benessere legato alla produzione di energia (idro)elettrica. Gli strateghi dell'economia, a Roma, avevano ben chiaro il piano di sviluppo degli impianti che avrebbero sfruttato acqua e dislivelli per produrre energia. Il confine sullo spartiacque consentiva di non dover poi discutere con altri su come dividere i proventi e l'energia prodotta - non c'era ancora il libero mercato, allora -. L'idea dello spartiacque come confine era dunque molto meno poetica di come ce la insegnarono a scuola...

Mo., 07.01.2019 - 10:04 Permalink