Se avessi dovuto attenermi a quella regola ormai dominante nel giornalismo d'oggi secondo la quale il commento accompagna e qualche volta addirittura precede i fatti a cui si riferisce, questa nota avrebbe dovuto uscire una settimana fa, mentre era ancora in corso la visita dei due Presidenti Mattarella e Van der Bellen in Alto Adige. Ho preferito, secondo un costume più antico della professione, aspettare che tutto finisse e che, con i nodi politici dell'avvenimento, venisse sciolto anche quello, perlomeno incauto, di qualche cravatta. Le cronache sono passate agli archivi e c'è spazio, ora, per qualche pacata riflessione.
Una premessa che non dovrebbe essere neppure necessaria, tanto è ovvia, ma che va comunque fatta.
L'idea di solennizzare con la presenza dei due capi di Stato Italia e Austria la catena di anniversari storico politici di questi mesi, nata indubbiamente dalla mente del Presidente Kompatscher, si è rivelata non solo opportuna, ma assolutamente necessaria per riportare sul piano di una politica alta e densa di profondi significati un dibattito che, troppe volte, negli ultimi tempi, era sembrato affondare nel fango limaccioso delle petulanti provocazioni nazionalistiche. Per la terza volta nel giro di pochi anni da Vienna e da Roma i due presidenti sono venuti ad incontrarsi in una terra dove il rapporto politico tra i due stati assume caratteristiche del tutto particolari, nel segno di un'intesa che ha come scopo la tutela delle minoranze linguistiche e la creazione di un sistema che garantisca pacifica convivenza a tutti i gruppi che in questa terra si trovano ad esistere. Non sarà stato, quello di alcuni giorni fa, un avvenimento storico come quello che vide, nel settembre del 2012, per la prima volta l'incontro tra Giorgio Napolitano e Heinz Fischer, ma il senso e l'importanza dell'occasione non possono essere sfuggiti a nessuno, anche prima che fossero ulteriormente sottolineati nei discorsi che i due statisti hanno pronunciato a Castel Tirolo e poi con la loro silenziosa presenza davanti ai segni della violenza che le dittature fascista e nazista hanno lasciato dietro di sé.
Detto ciò, qualche considerazione può essere tuttavia svolta riguardo al modo con cui dal calendario storico di questa terra tormentata si sono ricavati gli anniversari che i due Presidenti sono stati chiamati a solennizzare con la loro presenza.
Il trattato che divise
Il primo avvenimento sul quale si è molto insistito nelle ultime settimane e che figurava come ragione della visita in Alto Adige di Mattarella anche sull'agenda del Quirinale è quello relativo al centenario di quel trattato concluso nel settembre del 1919 in una località all'immediata periferia di Parigi, Saint Germain en Laye, e che cercò piuttosto vanamente di riordinare i confini di una vasta parte dell'Europa dopo il dissolvimento brutale del vecchio impero austroungarico. Un trattato di pace venne definito allora e viene chiamato ancor oggi, ma in realtà, a differenza di quello siglato con la Germania nella vicina Versailles, fu più che altro progetto calato dall'alto dai vincitori, che andarono a gestire il lascito complesso di un colosso politico che aveva tenuto assieme popoli di lingua, religione e cultura diverse. In questa sistemazione trovò posto anche l'assegnazione del territorio alpino sino allo spartiacque del Brennero all'Italia e quindi il passaggio sotto il Regno dei Savoia di una cospicua minoranza di lingua tedesca e ladina.
È abbastanza singolare che, in Alto Adige, dopo aver lasciato trascorrere senza particolari celebrazioni e commemorazioni tutti i vari passaggi che, dal 2014 in poi, hanno segnato il centenario della guerra e, nel 1918, il momento cruciale il quale l'Italia ha occupato la parte meridionale del vecchio Tirolo sino al Brennero, ci si sia concentrati su un avvenimento istituzionale sicuramente importante, ma che si limitò ad accertare, senza particolarissimi problemi diplomatici, una realtà ormai consolidata sul piano dell'occupazione militare e d'altronde già garantita all'Italia dal famigerato Patto di Londra con il quale Roma aveva accettato di entrare in guerra al fianco di Francia e Inghilterra.
Vissuto ovviamente come un dramma a Bolzano, il trattato, paradossalmente ma non troppo, non fu salutato con maggior entusiasmo nemmeno a Roma. Fu firmato dall'Italia solo dopo violentissime polemiche e infinite recriminazioni, soprattutto riguardo alla sistemazione dei confini orientali. Vi furono melodrammatici abbandoni delle trattative da parte dei delegati italiani, crisi di governo, minacce e contumelie. Alla fine fu giocoforza approvato, ma sotto l'anatema della "vittoria mutilata", termine coniato dal sanguinario battutista Gabriele D'Annunzio.
È un avvenimento storico che, proprio per questo, è scomparso dalla memoria collettiva del paese ben prima che l'Italia smettesse di celebrare la vittoria del 1918, sostituita nel calendario ufficiale da una festa delle Forze armate. Ed infatti nel settembre scorso nessuno, salvo gli altoatesini che lo patirono, se ne è ricordato.
Un "Pacchetto" per tutti
Il secondo avvenimento che le cerimonie della scorsa settimana hanno voluto solennizzare nella memoria collettiva è quello legato al famoso congresso della Südtiroler Volkspartei tenne a Merano il 22 e 23 novembre del 1969, mezzo secolo fa dunque, e con il quale fu dato via libera all'accordo raggiunto tra Silvius Magnago e Aldo Moro per il varo del cosiddetto "Pacchetto", composto da 137 misure e un calendario operativo, con il quale veniva definitivamente sotterrata l'autonomia regionale del 1948 e al suo posto ne nasceva una tutta nuova, incentrata su un cospicuo numero di competenze affidate alle province di Bolzano e Trento. Fu un congresso definito anch'esso con l'aggettivo di storico e perennemente citato, sia perché, dopo mille esitazioni, il partito che rappresentava allora la stragrande maggioranza dei sudtirolesi si decideva ad approvare un'ipotesi di intesa, dopo averne respinte altre nel corso degli anni precedenti, sia perché quell'approvazione avvenne con una maggioranza non certo plebiscitaria (583 i voti favorevoli, 492 i contrari, 15 le schede bianche e 14 i voti nulli), mentre l'esito finale era rimasto incerto per tutto il periodo precedente e anche durante la lunghissima giornata congressuale.
Anche qui una precisazione è obbligata: nessuno può sognarsi di contestare il valore storico di quell'avvenimento che rappresenta sicuramente una svolta e un passaggio fondamentale nella storia recente dell'Alto Adige, ma nell'enfatizzarlo, come anche questa volta si è fatto, come unica ed esclusiva chiave di lettura quel tormentato periodo si rischia di raccontare solo una parte di quella vicenda.
Quando gli echi di quel drammatico confronto tra la tesi sostenuta da Silvius Magnago che spingeva per l'approvazione del "Pacchetto" e quella dei suoi avversari che invece volevano respingere l'intesa e rinviarla, nel migliore dei casi a tempi più propizi non si erano ancora spenti, a Roma, si aprì un altro dibattito sugli stessi temi. A Montecitorio e a Palazzo Madama, il 3, il 4 e il 5 dicembre del 1969 l'intesa che aveva appena ricevuto la sofferta benedizione della Südtiroler Volkspartei fu sottoposta al vaglio dei due rami del Parlamento italiano. A presentare in aula il progetto non fu il suo artefice principale, Aldo Moro, che in quell'esecutivo ricopriva il ruolo di Ministro degli esteri, ma il Presidente del Consiglio Mariano Rumor. Alla Camera il dibattito durò per ben due giorni, al Senato una giornata sola. Non fu una discussione accademica. Contro l'intesa raggiunta si scagliarono violentemente i rappresentanti dei partiti politici della destra, missini e monarchici in primo luogo, ma fortissime riserve furono avanzate anche dei liberali ed era ben noto a tutti che molte cose di quel "Pacchetto" non piacevano molto a parecchi esponenti dei partiti di centro e di sinistra. Quel governo, tanto per fare chiarezza, era un monocolore democristiano che viveva sull'appoggio esterno dei due partiti della diaspora socialista (PSI e PSU) e sull'astensione repubblicana. Non vi era dunque neppure un saldo vincolo di coalizione a tenere assieme le forze cui si chiedeva di dar seguito alle intese raggiunte sull'Alto Adige. Erano partiti, primo tra tutti quello della Democrazia Cristiana, che sapevano benissimo di dover pagare probabilmente per quella scelta un prezzo abbastanza salato, in termini di consenso non solo elettorale, tra gli italiani dell'Alto Adige, che, sia pur con sfumature diverse, quegli accordi non riuscivano a digerirli. Sapevano che avrebbero dovuto affrontare l'ostilità durissima delle forze di destra su un tema, quello della difesa dell'italianità, che suscitava ancora e sempre emozioni molto forti in vasti strati della popolazione.
Sapevano tutto questo e pur tuttavia si disposero ad approvare quell'intesa nella forte convinzione che fosse l'unico strumento con il quale riparare i danni prodotti da una crisi politica più che decennale e rimettere sui binari il treno di quell'autonomia che era deragliato a metà degli anni 50 col fallimento dell'esperimento regionale. Il voto favorevole espresso dai due rami del Parlamento dunque il frutto di una consapevole scelta politica che avrebbe trovato sostanza due anni più tardi con l'approvazione in doppia lettura della legge costituzionale che diede vita al secondo statuto. Fu, quello, un dibattito ancora più lungo e ancora più tormentato per l'ostruzionismo condotto dalle destre e soprattutto dal Movimento Sociale Italiano guidato da Giorgio Almirante. Ci vollero pazienza e tenacia per superare tutti gli ostacoli e ci volle, alla fine, anche il concorso di un voto favorevole del Partito Comunista per evitare che l'intera materia potesse essere sottoposta ad un referendum popolare che sarebbe stato lacerante e dall'esito sommamente incerto.
Fu, dunque, una scelta voluta e rievocare quei dibattiti e quelle discussioni, accanto a quella avvenuta nel congresso SVP di Merano, avrebbe permesso di sfatare un altro mito storico che ricorre, purtroppo, nella "vulgata" che si è imposta come storia condivisa in Alto Adige: quello secondo cui il "Pacchetto" fu solamente il frutto della tenacia e dell'ostinazione del partito di raccolta e del suo leader, e fu in pratica imposto ad un infido è recalcitrante sistema politico italiano grazie anche al concorso di coloro che in quegli anni usavano il tritolo come strumento politico.
È una menzogna pura e semplice.
Rileggere gli atti parlamentari e i documenti politici di quegli anni dimostra in modo inequivocabile che la scelta di concedere la seconda autonomia fu una svolta maturata in modo sofferto ma consapevole del mondo politico italiano. L'intuizione e la paziente negoziazione possono essere condotte alla figura di Aldo Moro, ma fu tutta una classe politica a prendere atto della necessità di uscire dalle strettoie di uno scontro che non portava a nulla di buono. Non fu mai, però, una scelta obbligata o dettata dall'esterno. L'alternativa c'era e veniva presentata ad ogni piè sospinto non solo dalla destra politica ma anche da quel coacervo di strutture centralistiche che avevano avversato l'autonomia sin dall'indomani dell'accordo Degasperi - Gruber. Si trattava, pretemdevano, di bloccare ogni trattativa con Bolzano e con Vienna usando proprio l'argomento degli attentati, di respingere in toto o in parte, le richieste della SVP, di bloccare intanto ogni forma di trasferimento di competenze e di rinserrare la provincia in una gabbia sempre più stretta di controlli polizieschi e di repressione a tutti i livelli. Non era una strada ignota nel panorama politico del tempo. Poteva percorrerla agevolmente una dittatura come quella franchista per soffocare l'indipendentismo basco, ma lo stesso facevano democrazie collaudate come quella francese in Algeria o in Corsica e quella inglese del fronte allo scontro religioso nell'Irlanda del Nord. Era una strada che non ammetteva compromessi ma prometteva scontri durissimi, tensioni dolorose, sottosviluppo economico spargimento di sangue. Era comunque un'alternativa ma Roma decise altrimenti deludendo forse, in questo, anche coloro che, tra i sudtirolesi, avevano puntato le loro carte proprio sull'avvitamento progressivo della situazione in una spirale di violenze e di repressione per ripetere tra le Dolomiti quel che avveniva, in quegli anni, in molti paesi del mondo dove erano in atto guerre civili e di liberazione.
Questo va detto chiaramente soprattutto agli italiani dell'Alto Adige, a quelli giovani che non hanno memoria di quei fatti: l'intesa fu voluta e portata avanti con coerenza dalle forze politiche che governavano a Roma non meno di quanto non la volle e la portò avanti la tenace opera di Silvius Magnago e della parte della Südtiroler Volkspartei che lo appoggiò. I fatti successivi si incaricarono anche di smentire il teorema portato avanti, anche e proprio in quel dibattito parlamentare romano del dicembre 1969, da due esponenti sudtirolesi che erano stati in prima fila nel contestare l'accordo, il senatore Peter Brugger e deputato Hans Dietl, che, sia pure con toni diversi, motivarono il loro dissenso non tanto per il contenuto dell'intesa quanto per la totale sfiducia dell'interlocutore Italia, pronto, secondo loro, a non tener fede in nessun modo alla parola data.
Così andarono le cose in quei dibattiti, altra cosa che oggi qualcuno sembra voler far dimenticare, vi furono dei vincitori e dei vinti.
A vincere fu il partito della trattativa, dell'intesa, del faticoso compromesso da raggiungere e da rinnovare ogni giorno. A perdere fu il partito della rottura, dello scontro, della guerriglia politica ed anche, va detto anche questo, della guerra civile. Se l'Alto Adige, proprio in quegli anni cruciali, ha smesso di essere una delle zone più depresse d'Europa ed ha iniziato un cammino che lo ha portato ad essere uno dei luoghi più ricchi e sicuri del continente è perché, allora, qualcuno vinse e qualcuno perse.
Anche questo va spiegato ai più giovani di tutti i gruppi linguistici che, leggendo le cronache e i commenti di oggi, potrebbero sentirsi un po' confusi. Ci sono infatti, nell'enfasi della commemorazione, molti vincitori ma dei perdenti si è persa traccia. Oggi tutti si intestano il merito di aver ottenuto un'autonomia che, come hanno ripetuto pochi giorni fa i due Presidenti, è un modello da proporre a livello planetario. Anche coloro che quell'autonomia non la vollero e, forse, non la vorrebbero nemmeno oggi, ma fanno finta di niente e salgono, ben mascherati, sul carro dei vincitori.
Succede, ad ogni pié sospinto, nel mondo sudtirolese dove ormai è diventato un altro piccolo dogma di quella verità ufficiale che si vuol far passare per storia condivisa, il fatto che persino gli attentati fossero un contributo essenziale per il raggiungimento di un accordo.
Succede, con un parallelismo ormai abituale, anche nel campo italiano, dove i pallidi eredi di coloro che si batterono contro questa autonomia, con lo stesso furore con il quale avevano contrastato la prima autonomia e l'Accordo di Parigi perché erano contro ogni forma di autonomia, oggi, con una disinvoltura sconcertante, si propongono persino come custodi dell'ortodossia autonomistica giudicando con la matita rossa e blu del maestro di scuola le proposizioni altrui.
Sulla via di Damasco ci sono un sacco di piazzole di sosta e quindi ogni ravvedimento è possibile e benvenuto, ma piacerebbe che, anche una volta sola, l'inversione a U venisse comunicata e motivata, anche magari per render giustizia a chi, per quelle scelte di mezzo secolo fa dovette pagare un prezzo politico e personale altissimo e subire oltraggi e contumelie che sono arrivati a lambire anche la soglia della morte.
Per questo sarebbe stato bello, e lo sarebbe ancora, se alla commemorazione di quel fatidico congresso si accompagnasse anche quella del processo politico che lo precedette che lo seguì e che dimostra come certe scelte siano nate e si siano sviluppate.
Tempo di opzioni
C'è poi un altro anniversario che presidente Kompatscher citò diffusamente quando, a fine agosto, presentò alla stampa il programma delle celebrazioni, ma che invece, chissà perché, è scivolato in secondo piano nella cerimonia dei giorni scorsi: quello degli ottant'anni dal compimento di quel tentato genocidio che furono le opzioni di cittadinanza volute dal nazifascismo sul finire del 1939.
Peccato! Poteva essere l'occasione per una rivisitazione storica interessante, ma soprattutto per un confronto politico illuminante con un altro anniversario caduto, come ogni anno, nel mese di settembre: quello dell'intesa siglata nel 1946 a Parigi da Alcide Degasperi e Karl Gruber. Hitler e Mussolini, nel 39, applicarono all'Alto Adige il dogma nazionalista secondo cui non è ammissibile che esistano zone in cui vivono assieme persone di lingua e cultura diversa e secondo cui non è pensabile che una minoranza possa esistere in un paese dove la lingua, la cultura e le tradizioni sono diverse dalle sue.
Sono concetti che i due regimi, quello fascista e quello nazionalsocialista, non inventarono ma raccolsero per strada quando fecero propria una dottrina, quella del nazionalismo, che li aveva preceduti di decenni e che, nelle terre del vecchio Tirolo aveva messo salde radici fin dalla metà dell'ottocento. È un sistema di pensiero che al nazismo e al fascismo è purtroppo sopravvissuto e col quale, ancor oggi, dobbiamo fare quotidianamente i conti. A questa visione del mondo si contrappone quella simboleggiata proprio dall'intesa trovata in quell'autunno del 1946 a Parigi.
Sarebbe stato un confronto fecondo e illuminante.
Queste piccole osservazioni non possono comunque sminuire in alcun modo il valore della visita di Matterella e Van der Bellen. Nel loro muto sostare davanti alla lapide che ricorda l'assassinio fascista di Franz Innerhofer e al muro che ricorda i martiri caduti nel campo nazista di via Resia, c'è anche il monito sulla responsabilità particolare che compete a chi in questa terra vive, a chi sceglie di esercitarvi il delicato ruolo della politica. Una responsabilità che riguarda il passato e il presente, il modo in cui si parla e in cui si scrive, le grandi scelte e quelle piccole, quotidiane, come il gesto di allacciarsi una cravatta davanti allo specchio.