Con il nuovo anno anche una nuova, grave ombra si addensa repentinamente all’orizzonte della civiltà: all’alba degli anni Venti, Trump ordina l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani. Il 3 di gennaio Soleimani è assassinato da un drone americano presso l’aeroporto internazionale di Baghdad. Il Presidente americano ha impartito questo ordine all’insaputa del Congresso.
A missione compiuta, egli si è rivolto agli Americani affermando che l’uccisione del generale iraniano non serve a iniziare una guerra, ma a prevenirla. Ha inoltre spiegato che informare il Congresso sarebbe stato come informare gli Iraniani stessi. Da una parte egli ha rispolverato il concetto - caro all’amministrazione Bush - di “prevenzione”, dall’altra egli ha sì giustificato la segretezza della missione equiparando il Congresso al nemico. Un insulto intollerabile, nella lingua della politica americana.
Quando nel 2003 l’ultimo presidente guerrafondaio, George Bush, iniziò la guerra “preventiva” in Iraq, egli commise quello che oggi è riconosciuto come un «terrible mistake», un terribile errore.
Quella guerra fu giustificata dal presupposto – mai dimostrato – della presenza di armi di distruzione di massa sul suolo iracheno. Quella guerra fu radicalmente antigiuridica. Quella guerra fomentò odi destinati a durare, devastò le relazioni internazionali in Medio Oriente. Sul versante interno, quella guerra rafforzò la tesi secondo la quale lo stato di emergenza santifica qualsiasi mezzo, persino il più disumano e irrazionale, come ad esempio la tortura.
Insomma, l’amministrazione Bush esaltò le tendenze espansioniste che hanno corrotto i costumi americani; introdusse una perversione di quello che Tocqueville chiamava lo «spirito giuridico» negli Stati Uniti. Il “grande errore” fu visto da pochi nel 2003. Allora molti avevano lo sguardo offuscato dal fumo delle Twin Towers che crollavano al suolo. Solo negli anni dell’amministrazione Obama si riconobbe il “terribile mistake” per quello che era: una fucina di nuovi mostri e di orde di tagliateste.
Nessuna amministrazione americana aveva finora mai pensato seriamente di eliminare Soleimani. Il generale sciita era considerato un’icona non solo in Iran. Egli aveva guidato le Guardie della Rivoluzione da un ventennio ed era in odore si succedere a Khamenei. Nonostante le sue mani fossero lorde di sangue, gli Americani trovarono in lui un alleato nella resistenza all’Isis. Fu lui a combattere lo stato islamico in Siria, accattivandosi così le simpatie di molti moderati. Insomma, ammesso pure che Soleimani stesse progettando degli attacchi contro gli Stati Uniti, scagliargli addosso un drone americano non era forse la migliore mossa di politica estera né la più fine soluzione di “intelligence”. L’assassinio del generalissimo ha scatenato una prevedibile e vastissima reazione contro gli Stati Uniti.
La scia di sangue che seguirà ai fatti del 3 gennaio sarà lunga. Il presidente iraniano Hassan Rohani ha già promesso atroci ritorsioni. Finora, l’Iran non ha passato il segno. Non si è mai spinto oltre un certo limite. Insomma ha evitato di offrire il pretesto di una guerra. Ma ora? Privato della sua guida e sotto l’impulso di piazze inferocite, potrebbe commettere l’irreparabile e impedire i rifornimenti petroliferi. Questa eventualità significherebbe una nuova guerra, un altro, imperdonabile «terrible mistake». Al momento gli scenari sono del tutto imprevedibili: Trump ha provocato un governo di pazzi fanatici, non possiamo sapere come questi ultimi reagiranno, poiché i folli criminali – a differenza dei criminali qualsiasi – possono compiere atti del tutto irrazionali. Infine, le nuvole nere all’orizzonte, possono farsi nerissime, se Russia o Cina dovessero decidere di schierarsi in campo.
Ma allora, perché il presidente americano si è deciso per questa mossa tanto eclatante quanto rischiosa? Come mai ha scelto di giocare alla roulette russa?
Ci sono soprattutto due spiegazioni.
La prima: Trump è sotto assedio in patria. I suoi oscuri legami con la Russia hanno screditato la sua immagine. Contestualmente, egli è sotto procedimento di impeachment. Come nella serie televisiva “House of Cards”, la guerra è l’ultima da carta da giocare per un presidente disperato. Così, egli spera di distogliere da sé la pressione mediatica e di coalizzare il popolo americano contro un nemico esterno. Non è un caso che l’uccisione di Soleimani sia stata esibita trionfalmente al fine di recuperare il consenso perduto.
La seconda: lo scorso novembre il presidente iraniano Hassan Rohani aveva annunciato il ritrovamento di un enorme giacimento di petrolio tra Bostan e Omidiyeh (un’area di circa 4 km che si estende a est del confine iracheno). Il giacimento è stimato sui 53 miliardi di barili. Inutile dire che questa notizia ha destato gli interessi lobbistici in America e ha influito sul repentino mutamento della politica trumpesca.
Infine, un’ultima considerazione, che dovrebbe servire da monito anche per il nostro emisfero, per l’Europa infettata dai populismi di stampo nazionalista. Il populismo è una degenerazione della forma di governo popolare. Con il populismo il popolo non vince mai. Perde. Con il populismo un piccolo gruppo di uomini al potere illude e si serve del popolo, fomentando il culto di una nazione gloriosa che si erge fiera sopra le altre. L’esito ultimo, implicito nel populismo, è per forza di cose la guerra. Prima o poi il grande demagogo al potere non sa più come coprire le sue menzogne e allora attinge dall’arsenale ideologico che si è inventato.
Così, l’America del re dei populisti - il prototipo globale dei Salvini, degli Strache e degli Orban - l’America di Donald Trump si accinge a mandare in guerra un’altra generazione di giovani Americani. Loro sì, appartenenti al popolo, destinati dal grande demagogo, al macello.