Politik | 1981-2021

Le conseguenze di una scelta

Il censimento etnico in Sudtirolo compie 40 anni. Dopo gli anni delle gabbie, nessunə sembra più farci caso. Eppure c'è chi, dentro di sé, ancora lo soffre e lo contesta.
Gabbie etniche
Foto: Fondazione Alexander Langer Stiftung

“(…) il vero problema del mio diciottesimo compleanno è che mia madre si arrabbia da morire quando decido di non fare la dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico. Non voglio passare per quello ideologico, ma perché mai dovrei dichiararmi? Se siamo tutti bilingui, trilingui, quadrilingui perché mai bisogna scegliere?”

Maddalena Fingerle, Lingua madre

Cosa significa dichiarare un'appartenenza linguistica? È una domanda che in Alto Adige/Südtirol ci poniamo da almeno quarant'anni. Nel 1981, nella provincia più a nord d'Italia, più fronti si contrapposero attorno a un unico quesito: è giusto oppure no “schedare” la propria appartenenza a un solo “gruppo linguistico”, scegliendo una volta per tutte di essere di lingua tedesca, italiana oppure ladina? All'interno di questo acceso dibattito, da un lato c'era chi sosteneva che l'Autonomia – al fine di garantire una convivenza pacifica e duratura gli uni accanto agli altri – potesse funzionare solo attraverso il censimento etnico della popolazione, posto alla base di un sistema (la cosiddetta “proporzionale”) capace di attribuire a ogni gruppo posti di lavoro nel pubblico e benefici economico-sociali. Altre e altri, invece, ritenevano ingiusto (e impossibile) imporre una “schedatura etnica” a chiunque non fosse in grado di mettere la croce su una singola casella, perché bi/plurilingue o semplicemente perché in disaccordo con una separazione troppo netta tra le culture. In nome dell'abbattimento delle “gabbie etniche” – e promuovendo l'incontro fra le tre comunità del Sudtirolo – Alexander Langer e molte persone assieme a lui invitarono alla resistenza, promossero l'obiezione di coscienza, fondarono associazioni e movimenti politici.

Di quel fermento, quel confronto, quella ferma opposizione, sembra non esserci più traccia. L'Alto Adige è oggi tra i pochissimi territori al mondo dove la consistenza dei gruppi “etnici” viene misurata e certificata per legge, a patto di garantire benessere e “pacifica convivenza”. Le posizioni autonomiste più pragmatiche hanno dunque trionfato e, nel dibattito pubblico, il censimento è trattato come un compromesso accettato pressoché da tutti. Allora perché vale ancora la pena discuterne? Perché, al di là delle ripercussioni istituzionali e della loro efficacia, le conseguenze del censimento hanno solo cambiato forma. Non sono più manifeste, ma hanno una natura carsica. Non rappresentano più il fulcro di esperienze collettive, ma impattano comunque sul vissuto personale degli altoatesini/sudtirolesi. Negli anni duemila, dichiarare un'appartenenza linguistica è un fatto individuale e privato, che dice però ancora molto di chi siamo come comunità.

 

Perché vale ancora la pena discuterne? Perché, al di là delle ripercussioni istituzionali e della loro efficacia, le conseguenze del censimento hanno solo cambiato forma. Non sono più manifeste, ma di natura carsica.

 

Quando una quindicina di anni fa mi ritrovai davanti al foglio sul quale dovevo dichiarare la “mia” appartenenza a uno dei tre gruppi linguistici del Sudtirolo, fui messo al contempo di fronte a una scelta che stabiliva, nero su bianco, la mia identità. Mia madre e mio padre parlavano alla nascita due lingue diverse: erano – come si suol dire – l'una di madrelingua tedesca e l'altro di madrelingua italiana. Nel corso delle loro vite, entrambi erano diventati quasi perfettamente bilingui, e anche la mia vita seguii questo andamento bilingue a cavallo tra due mondi culturali. Al momento della dichiarazione di appartenenza (o aggregazione) al gruppo linguistico, però, la musica cambiò. Nella mia famiglia prevalsero considerazioni più terrene: “Dichiarandoti tedesco avrai più chance di trovare lavoro nel pubblico” era una di queste. Perciò, nonostante avessi frequentato tutte le scuole in lingua italiana e il mio lessico tedesco fosse più colloquiale e incerto, barrai la casella “tedesco”. In realtà non fu l'unica ragione. È come se in quell'atto, in quella croce, cercassi ingenuamente di bilanciare la lingua parlata (e quella dietro al mio nome e cognome) con la lingua madre, quella della mia famiglia sudtirolese. Fu una scelta di “disappartenenza”, per chiarire a me stesso che in nessuna delle due lingue mi identificavo appieno – tantomeno nella lingua che all'apparenza sembrava definirmi al meglio, ovvero l'italiano. Anche se non possedevo i tratti tipici di chi solitamente s'identifica come “tedesco” o “sudtirolese”, stabilivo così la mia non-estraneità al gruppo linguistico da cui proviene mia madre. Negli anni a seguire, spesso la mia scelta non fu compresa – anche in ambienti che si professano interetnici, con il paradossale risultato di ridurre l'appartenenza alla lingua parlata più di frequente. Come se “l'essere tedeschi” fosse altro da me e a quel punto fosse meglio non dichiararsi per nulla. La mia lingua padre ha finito per definire al cento per cento la mia identità percepita.

Esperienze analoghe sono all'ordine del giorno. Molte e molti giovani, anche se provenienti da famiglie miste, scelgono un'appartenenza. Ed essa, nella maggior parte dei casi, definirà la loro vita, sancirà una divisione, anche di fronte a tutta la buona volontà dell'incontro con l'altro. È una scelta che già avviene con la scuola d'iscrizione, ma che con la dichiarazione viene sancita quasi definitivamente. È una scelta dovuta, che (ricordiamolo) risponde a un meccanismo di tutela delle minoranze di lingua tedesca e ladina in Italia sancito dallo Statuto d'Autonomia e da accordi internazionali con l'Austria, e perciò difficile da superare. È una scelta “sulla carta”, come detto, che però si ripercuote sulla sfera identitaria dell'individuo, costringendolo a stare “di qua o di là”, a volte per un calcolo di convenienza e persino contro la propria più intima volontà. Non si tratta di dire, qui, cosa sia giusto oppure sbagliato, bensì di fotografare una realtà verso cui spesso voltiamo lo sguardo.

 

 

All'orizzonte intravediamo un futuro possibile o quantomeno auspicabile, nel quale le dure regole dell'appartenenza possano essere superate o ammorbidite. Perché accontentarsi di una libertà di scelta che libera non è?

Cosa dichiara chi è nato in una famiglia mistilingue? E chi è originario di un altro Paese o regione? Chi non può o non vuole dichiarare di appartenere a uno dei tre gruppi linguistici ufficiali ha nel frattempo una quarta opzione, quella di dichiararsi 'altro'. Tuttavia, ai fini della proporzionale anche queste persone devono 'aggregarsi' a uno dei tre gruppi linguistici”: così recita candidamente uno dei totem rossi posizionati in piazza Silvius Magnago a Bolzano per raccontare la storia dell'Autonomia sudtirolese, un'installazione inaugurata il 5 settembre 2021 nel “Giorno dell'Autonomia”. Su un altro si legge: “L'identità protegge, rafforza, ma al tempo stesso limita. Non siamo noi tutti più di un territorio, un gruppo linguistico, una comunità con la stessa appartenenza culturale? Per citare liberamente il filosofo Richard David Precht: 'Ma tu chi sei? Ed eventualmente, quanti sei?'”. Un altro ancora recita: “In provincia di Bolzano, una scuola plurilingue comune ai tre gruppi è ufficialmente un tabù a causa delle vicissitudini storiche. La scelta della scuola è comunque libera”. È curioso trovare questi interrogativi nella piazza intitolata al “padre dell'Autonomia”, davanti ai palazzi del Presidente della Giunta e del Consiglio provinciale. L'impressione è che all'orizzonte esista un futuro possibile o quantomeno auspicabile, nel quale le dure regole dell'appartenenza possano essere superate o almeno ammorbidite, ma allo stesso tempo tale futuro sia per noi irraggiungibile. Ci si accontenta perciò di una libertà di scelta, che davvero libera non è.

Nel romanzo Lingua madre dell'autrice Maddalena Fingerle, uscito nel 2021, il protagonista bolzanino Paolo Prescher rifiuta di dichiararsi al censimento e immagina anche il suo amico Jan “con tutti i suoi tic davanti alla dichiarazione, nel panico. Italiano, tedesco, ladino o altro? Lui metterebbe le crocette su italiano e tedesco e, ingenuo com’è, si troverebbe la dichiarazione annullata senza nemmeno capirne il motivo. Perché è obbligatorio scegliere, in quest’isola felice del cazzo, se si è italiani, tedeschi, ladini o altro. Per me è abbastanza facile, in realtà. Sono italiano e non mi sento italiano, sicuramente non sono tedesco e non sono ladino, credo di non essere nemmeno altro, al di là di tutto. Ma sono sicuro che per qualcuno la questione è più complessa. Non capisco perché Jan, che si sente bilingue, debba essere costretto a scegliere l’una o l’altra cosa”. Se non esiste una contestazione pubblica del censimento, ne esiste una privata, non manifesta, forse un po' passiva. Esiste la difficoltà di trovarsi dinnanzi a una decisione da prendere solo perché lo impongono le regole del gioco. Soprattutto per trovare lavoro nel pubblico, come viene detto al Paolo Prescher di Lingua madre, o per semplice consuetudine. Perché si è sempre fatto così. Così il censimento mette in crisi la persona, non tanto se abbraccia appieno l'uno o l'altro gruppo d'appartenenza, bensì se sta nel mezzo e teme l'insidia di una lingua che racchiude la propria identità.

Il censimento mette in crisi la persona, soprattutto chi sta nel mezzo e teme l'insidia di una lingua che racchiude la propria identità.

Riflettere su cosa sia diventato il censimento dei gruppi linguistici in Alto Adige/Südtirol, ricostruirne la storia, indagarne le conseguenze, è fondamentale per non perdere di vista lo stato di salute della nostra provincia e dei suoi abitanti. Uno dei baluardi dell'Autonomia compie quarant'anni, ma non ha subìto una profonda elaborazione storica e la sua turbolenta nascita, al contrario dei grandi avvenimenti del Novecento sudtirolese, è ancora troppo vicina per essere “contestualizzata”. Come la scritta luminosa che scorre attorno a una colonna del Monumento alla Vittoria di Bolzano ci ricorda i due fascismi in Sudtirolo, illustrati nel sottostante percorso espositivo, il vicino Ponte Talvera evoca la lotta alle “gabbie etniche” senza però rappresentare un luogo di memoria e confronto. È più che mai necessario, invece, trovare spazi e momenti di riflessione e questo anniversario può rappresentare l'occasione per guardare oltre la mera formalità e riconoscere le dinamiche, gli automatismi, i riflessi condizionati innescati da uno strumento in ogni caso invasivo come la dichiarazione di appartenenza o aggregazione ai gruppi linguistici.