The Power of the Dog
“Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog”
Udite, udite: dopo 12 anni dall’ultimo film Bright Star, intervallati dalla serie Top of the Lake (un must-see, soprattutto la prima stagione), nostra signora Jane Campion è tornata con un western sporco e cattivo: The Power of the Dog (Il potere del cane) - tratto dall’omonimo libro di Thomas Savage pubblicato per la prima volta nel 1967 - che le è valso il Leone d’argento per la migliore regia all’ultima Mostra del cinema di Venezia.La pellicola è in proiezione al Filmclub.
Cos’è
Il film della regista neozelandese, premio Oscar per la sceneggiatura e Palma d’oro a Cannes nel 1993 per The Piano (Lezioni di piano), è ambientato nel 1925 e racconta la storia dei ricchi fratelli Burbank, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), proprietari di un enorme e redditizio ranch nel Montana.
I due non potrebbero essere più diversi, la versione saloon di Caino e Abele: Phil è un bovaro esperto, rude nell’aspetto (“I stink and I like it” sbraiterà dopo una giornata di lavoro) e nell’animo ma intellettualmente sofisticato; un bulletto prepotente, sessualmente represso - sebbene il suo personaggio, come si scoprirà nel corso del film, sia molto più complesso di così -; il mite e gentile George, sempre vestito per benino e poco incline alla vita da ranch imposta, evidentemente, da mamma e papà, ambisce alla scalata sociale e al mondo civilizzato.
I guai arrivano quando George decide di sposare la vedova Rose (Kirsten Dunst) che gestisce un café insieme all’introverso ed efebico figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), bersaglio di stilettate omofobe da parte di Phil che si servirà del ragazzo per tormentare la madre.
Com’è
È un western moderno, psicologico, disfunzionale, che ribalta l’immaginario del cowboy macho e gli archetipi del genere. La colonna sonora ansiosa e disturbante di Jonny Greenwood sembra costantemente alludere a una tragedia imminente - e inevitabilmente riecheggiano nell’aria le note di There Will be Blood (Il petroliere) di Paul Thomas Anderson. Tutto si muove sopra un equilibrio tensivo mentre il disagio della povera Rose, fuori posto e male accolta nella tenuta dei Burbank - agli impallinati di cinema forse torneranno in mente le inquietudini di Giant (Il Gigante) di George Stevens -, cresce in una miscela di paura, insicurezza e depressione acuita dall’abuso di alcol.
E in quest’atmosfera tesa i campi lunghi e lo sfoggio estetico (ma non estetizzante) della grandiosità degli spazi aperti cristallizzati dalla splendida fotografia di Ari Wegner diventano paradossalmente quasi claustrofobici.
Il vero numero di Campion, riuscitissimo perché compiuto senza evidenziarlo con lo Stabilo Boss, è il cambio di prospettiva che più volte spariglia le carte della narrazione sorprendendo lo spettatore; è un suggerire e nascondere, anche con espedienti simbolici (il lavoro di Phil sulla trama della corda, le strisce di pellame agitate dal vento ricordano i pistilli dei fiori di carta creati da Peter) nei cinque capitoli fino al climax finale (unico neo: forse un po’ troppo affrettato) che ci fa mettere insieme i pezzi riportandoci al voiceover iniziale per comprenderne adesso il senso.
Nota bene: non ascolterete più la Radetzky-Marsch di Strauss con le stesse orecchie. Un banjo così sadico non lo si sentiva dai tempi di Deliverance (Un tranquillo weekend di paura) e un fischio così sinistro dal motivetto performato in M - Eine Stadt sucht einen Mörder (M - Il mostro di Düsseldorf). Così vi preparate.
Ciao Sarah, un filmaccio, per
Ciao Sarah, un filmaccio, per me. Una scatola vuota, senza storia. Luoghi comuni (femminuccia, donna bourbon). Fotografia e scenografia? Rivedere Info the wild