Gesellschaft | Accoglienza

La lunga strada verso casa

Hanno lavoro, contratto e conoscono la lingua, ma non trovano un alloggio. L'odissea infinita dei migranti in Alto Adige. Windegger (Caritas): "Ancora troppa diffidenza".
Rifugiati
Foto: stichting-vluchteling-the-dutch-refugee-foundation

Il recente caso della famiglia irachena costretta a lasciare maso Zeiler, la struttura in cui era ospitata a Bolzano, molto semplicemente perché il tempo era scaduto essendo stata accolta la loro domanda di asilo, non fa che sottolineare, ancora una volta, l’incapacità (o il rifiuto) di considerare quello migratorio come un fenomeno permanente. Colpa di una corta memoria collettiva o, a dirla con Ezio Mauro, di quell’“istinto indigeno di protezione che chiede confusamente difesa, salvaguardia, addirittura riparo e copertura rispetto al mondo di fuori che viene a bussare a casa nostra”.

In Alto Adige il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo ha dimostrato in più occasioni, anche estremamente tragiche, le sue falle, e non si distingue, evidentemente, nemmeno nella cosiddetta la fase successiva, ovvero quella in cui si rende necessario il reperimento di un alloggio. Il soggiorno consentito nelle strutture di accoglienza, infatti, è, secondo le disposizioni attuali, pari a 6 mesi dalla data di notifica del decreto di riconoscimento della protezione internazionale. Dopodiché, in sostanza, o ci si arrangia o si finisce per strada.

Magdalena Windegger, responsabile in Caritas per la ricerca alloggio dei richiedenti asilo - una volta usciti dalle strutture -, spiega a salto.bz che l’impresa diventa sempre più ardua. Un po’ perché i numeri crescono e così le richieste (in due anni Magdalena ha trovato, grazie anche all’aiuto di un folto drappello di volontari, una sistemazione per 150 persone, compresi 20 nuclei famigliari), un po’ perché la diffidenza generale è ancora alta, specie nei confronti dei singoli che vorrebbero condividere un appartamento.

“Quando i richiedenti asilo ricevono la protezione umanitaria hanno 30 giorni per uscire dalle strutture e trovare una casa in una finestra di tempo così ridotta è, giocoforza, complicato”, evidenzia la responsabile Caritas. Qualcuno riesce a cavarsela da solo, pochissimi riescono ad accedere alle case IPES, altri ottengono un alloggio attraverso i propri datori di lavoro, sono infatti molti i migranti, che hanno un impiego ma l’estrema precarietà abitativa non risparmia nemmeno loro, inclusi perfino quelli che posseggono un contratto a tempo indeterminato, motivo per cui di frequente si è costretti a trovare delle soluzioni transitorie, riferisce Windegger.

Molto spesso sono le persone stesse a voler uscire il prima possibile dalle strutture di accoglienza perché vogliono essere autonome dal momento che possono permetterselo, ma sebbene abbiano dimostrato la volontà di integrarsi viene negata loro questa opportunità

A complicare il tutto ci si mettono anche le direttive statali - “e non provinciali, come qualcuno le chiama impropriamente, forse perchè la Provincia si occupa della trasmissione alle varie strutture”, tiene a precisare il direttore di Ripartizione Politiche sociali Luca Critelli -, le quali prevedono che chi si trova in una situazione lavorativa decente per almeno sei mesi e ha la possibilità di rinnovare il proprio contratto per altri 6 mesi deve lasciare entro 3 mesi la struttura di accoglienza presso cui è ospitato e cercare un posto dove vivere.

“Molto spesso sono le persone stesse a voler uscire il prima possibile perché vogliono essere autonome dal momento che possono permetterselo, ma sebbene abbiano dimostrato la volontà di integrarsi viene negata loro questa opportunità. Ci sono ad esempio due ragazzi migranti a Vandoies con un contratto a tempo indeterminato, e uno stipendio di tutto rispetto, che parlano già bene l’italiano - uno di loro anche il tedesco - e che hanno dovuto lasciare la struttura di accoglienza proprio perché si trovano in una buona condizione lavorativa e che dormono dallo scorso novembre nella sala parrocchiale perché da mesi non hanno avuto successo nel trovare un appartamento”.

Le case ci sono, ma molti proprietari non vogliono affittare, in particolar modo agli stranieri, “eppure di esperienze positive ce ne sono tante, come quella di 4 ragazzi nigeriani che hanno trovato un posto a Brunico, dove tutto procede nel migliore dei modi. Noi accompagniamo queste persone nel percorso da seguire, dalla stipula del contratto d’affitto alle prime necessità del caso oltre a gestire i rapporti con i proprietari, ma se non trovano un posto dove poter iniziare a mettere radici allora faticano anche a mantenere il lavoro. L’alloggio è l’ultimo fondamentale step nel loro tragitto verso l'integrazione, e io credo che in questo senso la società dovrebbe aprirsi di più e dimostrare maggiore umanità”. Un capitale di speranza mai esaurito e ora, inevitabilmente, più esigente.