Film | SALTO Weekend

La democrazia è un tirocinio

C’era una volta in Bhutan, storia di un popolo che per la prima volta prova l’esperienza di andare a votare dopo l’abdicazione del re. Una satira politica molto educata sul peso del cambiamento e sul viaggio verso la modernizzazione.
The Monk and the Gun
Foto: Screenshot
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    Un record se l’era già intascato Pawo Choyning Dorji, quando nel 2022 la sua opera d’esordio Lunana – Il villaggio alla fine del mondo divenne la prima pellicola bhutanese a entrare nella cinquina degli Oscar per il miglior film straniero. Nel 2024 stava per bissare: si è fermato alla shortlist con C’era una volta in Bhutan (titolo originale: The Monk and the Gun), in questi giorni in sala.

    Cos’è 

    Il film parte da un fatto vero: nel 2006 il monarca del Bhutan decide di abdicare e di indire le elezioni per la prima volta nella storia del Paese. Il suo popolo però, molto attaccato alle tradizioni, fatica ad accettare il passaggio alla democrazia e ad abbracciare un cambiamento così drastico, tanto che si renderà necessario organizzare delle finte elezioni per insegnare ai cittadini, in gran parte non istruiti, come votare. C’era una volta in Bhutan affronta anche il tema dell’avvento della tecnologia moderna nelle zone più remote del piccolo stato confinante con l’India e la Cina che fu l’ultimo al mondo ad avere accesso a TV e Internet.

    È un film corale che segue diverse linee narrative: un monaco buddista (Tandin Wangchuk) a cui un anziano Lama (Kelsang Choejay) chiede di portargli delle armi; un turista americano (Harry Einhorn) che cerca a tutti i costi di acquistare un raro fucile dell’epoca della Guerra Civile da regalare a un collezionista in patria – impresa che si rivelerà più difficile del previsto –; le vite degli altri che si preparano a partecipare alle prime elezioni del loro Paese.

  • (c) RoadsideFlix

  • Com’è

    È una commedia satirica fatta di piccoli racconti che si combinano per fornire un quadro della comunità bhutanese in un periodo di sconvolgimenti politici. La fotografia suggestiva, da documentario del National Geographic, degli splendidi e vibranti luoghi himalayani firmata da Jigme Tenzing celebra un particolare ritmo e stile di vita che governano gli avvenimenti. Acuto è il senso dell’umorismo che permea la narrazione, i tentativi dell’americano di concludere l’affare conducono ad alcune delle interazioni più divertenti del lungometraggio di Dorji – oltre che a una serie di osservazioni sulle differenze culturali tra gli Stati Uniti e il Bhutan –, senza contare il finale che coinvolge un gigantesco fallo rosso utilizzato in una cerimonia religiosa.

    All’inizio del film si sente gracchiare una radio: un giornalista britannico sottolinea quanto sia strano che, nonostante il re si sia dimesso, la popolazione si mostri generalmente tiepida nei confronti della democrazia – l’esportazione della stessa come missione fondamentale della politica estera dell’Occidente è un approccio arcinoto riflesso anche dal film che si incentra sull’attrito tra l’influenza occidentale e il tradizionalismo, muovendosi con disinvoltura su queste prospettive contraddittorie. C’era una volta in Buthan non rifiuta però in blocco il futuro o la tecnologia, basti pensare all’eccitazione di un gruppo di persone, fra cui un monaco, che guardano su uno schermo il Bond movie Quantum of Solace. Peccato che il film si rifiuti di esplorare le conseguenze della progressiva transizione del Paese verso la democrazia restando così troppo innocuo nel suo messaggio, ma grazie per aver schivato qualsivoglia parabolone mistico.